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giovedì 22 febbraio 2024

Canto di un poeta caduto (il Duca)

Che fine hanno fatto i sogni e le battaglie combattute?

C'era sempre una montagna da scalare, una poesia da scrivere, una verità da indagare. Il desiderio ardente, lanciato come una freccia nel sole, era il motore di ogni azione, tutto era vita, forza, energia, speranza.

Che fine hanno fatto le nottate attorno ad una bottiglia? Con le parole che scorrevano come torrenti in primavera, carichi di acqua vivida e feconda. Le passeggiate senza una meta, a discutere del futuro: come costruirlo? Come lottare per esso, contro il nemico che sarebbe caduto sotto alle nostre idee?

Non si era mai stanchi di mettere un piede davanti all'altro e i sogni correvano dinnanzi a noi. Che fine hanno fatto ora? Che fine abbiamo fatto noi filosofi della bellezza, alpinisti dell'assoluto, rivoluzionari del vivere autentico?

Si lottava contro il nemico, contro la formalità, contro l'incrostazione derivante da significati vuoti e monotoni, lontani dalla creatività del filosofo poeta. Si lottava per la bellezza ad ogni costo, una bellezza infinita, in grado di esplodere e gonfiare la vita. Una bellezza autentica, inafferrabile, ma eternamente presente come l'Essere di Parmenide.

Quella bellezza era tutto per noi, che ogni fine settimana strisciavamo sulle montagne, elevandoci oltre la monotonia del nemico. Si svelavano infiniti mondi, sulle pareti di ghiaccio, nella dolcezza dei fiori, nella ruvidità della roccia.

Veramente tutta quella vivida passione, quella speranza ardente e combattiva, si è rinsecchita? Veramente tutto alla fine si è incrostato precipitando nella stanca insignificanza del mondo dominato dalla formalità? Veramente alla fine il nemico ha trionfato e la nostra lotta, la bellezza respirata, l'autenticità cercata, è finita nel baratro del nulla?

Realmente allora la vita autentica volta alla bellezza è destinata alla disperazione e dunque alla sconfitta? Il desiderio che ha dominato le nostre vite e che ancora spinge nel fondo del cuore, sembra imbrigliato nel nulla della vita formale. E allora ci si sente impotenti, affossati. Con la voglia che si è consumata in una corsa che sembra ormai senza spazio. Realmente ci dobbiamo arrendere definitivamente?

Eppure questa resa risulta a me insopportabile! La mancanza di spazio porta alla rabbia, alla rabbia contro tutto un mondo che si presenta come gabbia bastarda, che tenta di contenere un fuoco che brucia, arde, ma che non riesce più a incendiare. Forse tutto questo si chiama disperazione. Forse questo è il giusto termine.

Il problema è quello già individuato quando ancora le parole scorrevano a fiumi attorno alla bottiglia: come rispondere all'abisso di un desiderio infinito? Ma ancora più complicato è rispondere a questa domanda ora, adesso che la speranza sembra essere pesantemente caduta a terra.

Io riesco solo ad avere una debole consolazione: che almeno quella vita estetica protesa alla bellezza, alla verità, all'autenticità, all'azione, alla lotta, possa risplendere come una tenue luce nella notte attraverso i nostri occhi e i nostri racconti. Ecco perché allora provare a scrivere ancora, ad insegnare, a emanare poesie. Ecco perché provare ancora a lanciare lo sguardo in alto, verso la bellezza, le montagne e il cielo stellato.

venerdì 21 luglio 2023

Riflessione alla base di un camino (il Duca)

 

Seduto alla base di una parete sognata e studiata per tanti mesi, ascolto il silenzio e il freddo del vento che inizia a graffiarmi le ossa.

Il mio mondo è fatto di pietre chiare e neve caduta nella notte; sopra di me il camino nero che avrei dovuto imboccare gronda acqua, soffiando giù aria umida e gelida. Lo guardo un'altra volta, mentre le nubi sottili turbinano sopra di me e lungo i fianchi della montagna. Osservo le placche che luccicano e su cui scorre lenta l'acqua, provo ad immaginare una labile possibilità per superare quei passaggi, ma oggi realisticamente bisogna constatare che è necessario rinunciare.

Un paio di tentativi poco convinti li ho anche già fatti: sia nel camino che sullo spigolo. Laddove la roccia è asciutta è un vero piacere metterci la mano, si può percepire la sua ruvidità che dà sicurezza. Ma per lo più ci si trova ad annaspare sul bagnato.

Sono lì solo, convinto del mio sogno, del mio progetto, ma consapevole di dover dichiarare la resa. Alzo lo sguardo un po' malinconico, un po' dispiaciuto, ma oggi non riesco ad essere incazzato. Non riesco a prendermela con la mia montagna. Lei così grande, bella, eterna, io così testardo ed innamorato di lei.

Mi guardo attorno, tutte le guglie grigie che mi circondano e si innalzano verso il cielo, quei pinnacoli in cui sono racchiusi i miei ideali, o forse qualcosa di ancora più concreto: la mia essenza e la mia storia.

Quest'anno la montagna è con me particolarmente severa, anzi è da due anni che lo è. Tutti i dannati weekend e tutte le volte che posso sono da lei, sempre, in ogni stagione. Di cime ne ho fatte tantissime, di ogni tipo. Ho salito pareti, creste, canali, qualunque tipo di via. Ma da due anni, a parte qualche sporadica eccezione che si può contare sulle dita di una mano, non ho mai trovato condizioni normali. Pioggia, vento forte, pareti che scaricano impietosamente, neve marcia, roccia fradicia... ogni volta c'è da lottare oltre ogni previsione e ci si trova nella situazione di dover decidere se continuare o no.

Questa volta decido di no, è una rarità anche questa. Decido di fermarmi e lo faccio tranquillamente, sedendomi lì su quel ghiaione guardandomi attorno.

Questa volta non proseguo imprecando, urlando i miei vaffanculo alla sfiga, volendo dimostrare che nonostante tutto io se voglio vado avanti. No, questa volta mi fermo e mi guardo attorno, osservo le mie montagne come un bimbo guarda la mamma che lo ha appena sgridato e non capisce bene perché.

La montagna per me è stata tutto. E' la terra a cui appartengo, la casa a cui tornare, il luogo dove ritrovarmi. E' la dura realtà contro cui amo sbattere e danzare ogni qualvolta devo trovare la mia direzione, la mia identità e la mia forza.

E' il mondo dove si sono sviluppate le amicizie più vere, i pensieri più autentici, le consapevolezze più genuine. Io ho bisogno della montagna, ne ho sempre avuto bisogno, fin da quando ho memoria. Se dico “montagna” mi vedo a due anni su un prato che cammino insicuro e ciondolante, sorridendo alla mamma, con dietro i ghiacciai del Cevedale che mi osservano, figlio anche loro. E poi mi vedo con i miei amici a caccia di sogni, dove dietro ad un uno ce n'è sempre un altro: pareti di ghiaccio, spigoli di roccia, crepacci aperti che richiamano l'abisso presente in tutti noi. Mi vedo solo, dall'altra parte del mondo, sotto montagne gigantesche, esotiche, che però nascondono nella loro enormità qualcosa di mio, ed è per questo che sono lì da loro.

Io ho bisogno della montagna perché sono un pezzo di loro e loro custodiscono quella parte intima di me, ecco perché è là che posso ritrovare me stesso.

Penso a tutto questo guardando la parete che mi ha appena respinto, guardando le cime tutte attorno a me che si elevano verso il cielo. Ed è così ancora che mi chiedo: perché, cara montagna, che cosa mi stai dicendo in questi anni con la tua severità?

Vorrei trasmettere tutto quello che la montagna mi ha donato, questo è un desiderio che da un po' bussa forte. Forse la montagna ora me lo sta dicendo anche lei: non ti ho dato tutto questo per trascinartelo nella tomba. Ecco, ora voglio partire da qui.

giovedì 30 settembre 2021

Stupidamente felice (il Duca)

Scendendo l'ultimo ripido pendio raggiungo finalmente Campo 2, a 5500m, nevica da un'ora e una parte di tenda è già sepolta.
Con le mani e gli scarponi libero l'ingresso, faccio sibilare la cerniera e mi butto dentro, rimanendo lì sdraiato con i piedi di fuori.
I miei pensieri sono stanchi, le idee sono un po' confuse, ma in mezzo alla mia faccia segnata dall'alta quota troneggia un sorriso immenso.
Lentamente mi sfilo i ramponi e gli scarponi e richiudo l'ingresso, lasciando fuori la bufera che si gonfia sempre più cattiva. Butto qua e là le robe sparse nella tenda, mi tolgo dalle spalle lo zaino carico di neve e lo sistemo in un angolo, quindi mi sdraio sul materassino coprendomi col sacco a pelo.
Ho la gola arsa, ma non posso procurarmi liquidi.
Ho la faccia bruciata e ferita e le labbra secche come cartone, ma non posso farci proprio niente.
Ho fame, ma non ho altro che una mezza merendina kazaka, che sa di muffa e di cacao scaduto.
La temperatura sta scendendo velocemente, sento il freddo iniziare a graffiarmi le ossa, anche stanotte toccherà i -30 e dovremo lottare col ghiaccio che si forma sul telo interno.
Eppure, nonostante tutto questo, ho una felicità immensa che mi riempie il petto.
Sono contento, sono totalmente felice, in maniera indescrivibile.
Chiudo gli occhi e ripenso a tutto quello che mi ha portato ad essere qui: gli allenamenti massacranti, le ore per organizzare tutta la spedizione, le giornate infinite su questa gigantesca montagna dall'altra parte del mondo.
Ripenso a quello che ho vissuto oggi, i dubbi alla partenza e l'esaltazione che ho sentito in parete, quando ho trovato ancora una volta la sintonia totale con la montagna. Penso all'abisso che ho percorso, a quelle muraglie infinite di ghiaccio e roccia che ho scalato passo dopo passo, appeso fra le braccia immense del Khan Tengri. Ripenso alla cima, agli ultimi passi prima di toccarla e a quando, dopo tre settimane, mi si è schiuso un altro mondo, un'altra prospettiva.
Sono felice così, lì sdraiato e distrutto in attesa che arrivi anche il mio compagno di cordata.
Sono così follemente ed immensamente felice che scoppio a ridere da solo, come un matto vero. E' una risata muta, è solo un sibilo quello che riesce ad uscire dalla mia gola bruciata, ma è la risata più sincera che mi sia mai capitata.
Perché sono così felice? Così scioccamente felice?
Mi viene in mente la frase del mio caro Platone: “Per chi intraprende cose belle, è bello soffrire, qualsiasi cosa gli tocchi”.
E questa stessa felicità l'ho letta mille volte negli occhi di ognuno dei miei amici, dopo ogni scalata, specialmente le più problematiche. E' una felicità che abbiamo condiviso molte volte senza neppure dovercelo dire. E in fondo... e in fondo quale altro motivo avremmo per vivere, se non per inseguire la bellezza? Per respirare la bellezza e guadagnarci un pezzettino per volta, un passo dopo l'altro, brandelli di autentica felicità?

mercoledì 12 maggio 2021

Grandes Jorasses (il Duca)

Grandes Jorasses, anche solo il nome risuona di mito e leggenda.

Da anni quel nome gira sulle nostre bocche, ma non l'abbiamo mai messa davvero in programma. Troppo difficile azzeccare le giuste condizioni, anche solo per la via normale, per quella che è considerata una delle vie normali più impegnative di tutte le Alpi.

Poi un giorno Lallo mi scrive: “secondo me potrebbe essere la volta buona...” io non esito un istante. Chiamiamo, prenotiamo e si parte.

Seduti su una panchinetta di legno mangiamo i nostri panini al riparo di un larice, mentre la pioggia riempie la Val Ferret. C'è qualche dubbio, ma più forte di tutto c'è la voglia di farcela, ora che siamo qui, ora che abbiamo davvero osato bussare alle porte della grande montagna.

Saliamo verso il Boccalatte e lentamente il velo di pioggia si apre lasciando spazio ad un timido sole. Al rifugio ci troviamo come a casa, davvero. Franco è molto più di un mito, è un rifugista autentico, di quelli che solitamente trovi nelle valli più nascoste e selvagge. Raccogliamo qualche consiglio, un sacco di belle storie e del sano riposo, poi all'una di notte partiamo.

La salita della Grandes Jorasses è impossibile da assaporare, non è una prelibatezza, ma un'abbuffata da fare col fiato sospeso. Camminiamo nel buio totale, seguendo la labile traccia che sale a zig zag per il ghiacciaio, solo a tratti ci accorgiamo degli enormi crepacci che stiamo aggirando.

Raggiunte le rocce Reposoir, dopo il primo tiro di misto, ci togliamo i ramponi e iniziamo la risalita in conserva protetta. A poco a poco i nostri occhi si abituano a cercare nel buio della notte i giusti appigli, guidati dalla debole luce delle nostre frontali. Saliamo bene, ottimamente coordinati: io metto i friend, Lallo li toglie e via, così, verso l'alto.

Giungiamo sulla cima dello sperone che il giorno inizia ad illuminare il mondo attorno a noi: una cascata di seracchi ci divide dal pilone roccioso che scende dalla Whymper. Guardiamo questo universo glaciale immaginando un possibile passaggio: tutto è ancora in penombra, tutto qui è incredibilmente inospitale e allo stesso tempo terribilmente affascinante.

Ripartiamo con estrema cautela, facendo il lungo traverso con il fiato sospeso. Dove il ghiaccio è più insidioso proteggo con una vite, passando poi a metà tra la placca di granito e la lama di neve crostosa. Cerco di trovare nella mia testa tutta la leggerezza possibile da trasmettere al mio corpo. Giungo così alla base delle Rochers Whymper, dove riesco ad attrezzare una buona sosta per recuperare Lallo.

Ora è tempo di tornare ad arrampicare su roccia. Saliamo bene, fino ad affacciarci ancora una volta su di un mondo nuovo: siamo al cospetto del famoso gigantesco seracco pensile, la massa di ghiaccio che regna sovrana tra le due punte principali delle Jorasses.

Ci guardiamo attorno e non abbiamo dubbi sul da farsi: tenteremo di scalare il couloir che sale tra il seracco e le Rochers Whymper, come suggeritoci da Franco.

Iniziamo così la nostra ascesa verso la vetta, l'ultimo capitolo verticale di un viaggio che sembra un mosaico di scalate diverse. Più una saga che un saggio.

Quest'ultimo tratto, inserito nella sezione più pericolosa e fatale dell'intera montagna, è avvolto da un incanto sublime. Ai colpi delle nostre piccozze fa eco il gorgoglio dell'immenso seracco, che alla nostra destra si muove continuamente come un mostro alieno.

Superati una serie di crepaccetti orizzontali e ben nascosti dalla neve, finalmente sbuchiamo in cresta. Davanti a noi, oltre l'enorme cornice che fa da balconata al filo, precipita con una verticalità spaventosa la famosa parete nord, che sembra non finire mai.

Con l'estrema cautela che oggi non dobbiamo mai abbandonare, seguiamo l'affilata cresta fino a toccare la cima della Punta Whymper. Siamo immensamente felici, emozionati lì in piedi sulla vetta, mentre sotto di noi si dispiega il mondo intero. Non osiamo però rilassarci nemmeno per un istante, non ci consideriamo assolutamente arrivati.

Dopo aver scattato qualche foto, come due equilibristi legati alla medesima corda ci muoviamo sul filo di cresta verso la punta Walker. Superiamo qualche saltino di misto, con la vertigine della Parete Nord che non smette mai di richiamarci. Giunti alla sella tra le due cime la dorsale si allarga notevolmente e camminando senza più difficoltà raggiungiamo la vetta più alta delle Jorasses.

Ora sentiamo che ce l'abbiamo fatta per davvero: il regno del Bianco col suo re è tutto attorno a noi, ma più che il paesaggio è la percezione di essere sulla testa di questa montagna mitica che ci riempie il cuore. Non siamo qui come due spettatori, ma come i privilegiati viandanti a cui è stato concesso di inoltrarsi nelle profondità di una terra sacra.

Dopo esserci goduti la vetta in un clima perfetto ed accogliente, iniziamo a malincuore la discesa per la via normale. Vaghiamo per nevai scaldati dal sole e rocce instabili che ci impegnano più di quanto ci aspettavamo. Alla fine giungiamo al ghiacciaio sotto al grande seracco, che attraversiamo a passo spedito. Raggiunte nuovamente le Rochers Whymper ripercorriamo a ritroso la nostra via tornando al Boccalatte e poi a valle.

Qualche ora dopo ci troviamo all'autogrill di Novate a mangiare Hamburger. Attorno a noi diverse famiglie, coppiette, gruppetti di amici e gente sola. Dentro di noi il dono di una montagna immensa e leggendaria che nessuno ci potrà mai togliere: la Grandes Jorasses!

lunedì 9 novembre 2020

La Grande Parete dei Palù (il Duca)

Scendiamo dalla funivia carichi all'inverosimile. Ci sentiamo quasi fuori luogo davanti ad alpinisti e turisti ben ordinati nel loro vestiario; il loro format è perfettamente appropriato, la loro tenuta, il loro bagaglio, il portamento è esattamente conforme al lusso d'alta quota del posto in cui ci troviamo: il Diavolezza.
Noi ci muoviamo ciondolanti e goffi; abbiamo zaini, borsoni, sacchetti di plastica squarciati che dobbiamo tenere accartocciati per non perdere la roba che dentro ristagna in ordine sparso. 
Strisciando lungo la morena ci allontaniamo, quasi fossimo due ladri. Ci abbassiamo verso una bella piazzola circondata da un muretto a secco, da noi scorta nella pietraia a picco sul ghiacciaio sottostante. Qui montiamo la nostra tenda, sotto lo sguardo incuriosito degli ospiti dell'albergo-rifugio, che con discrezione si lasciano distrarre dalle nostre manovre. 
Ci sistemiamo, spargiamo le nostre cose tra pietre e residui di nevai e pian piano diventiamo gli abitanti della valle. Proprio così iniziamo a sentirci, ritrovando sempre più concretamente quell'appartenenza che sembrava avessimo tenuto da parte in attesa di ritrovarci qui. 
Il nostro piccolo accampamento è pronto, apriamo le birre e le patatine che ci siamo portati, come in un rito già predisposto. Adesso, con calma, possiamo dedicarci al nostro compito di oggi: studiare l'oggetto che ci ha mossi fin qui, ammirare il re assoluto di questo luogo, prepararci per l'incontro con quella parete che ci attende da anni: la Nord del Piz Palù. 

Tutto sembra portare in direzione di quella cattedrale scintillante, sorretta dai suoi tre speroni di roccia nera. I suoi seracchi bianchi precipitano verticali, accatastati uno sull'altro, baciati dal sole di inizio luglio che li fa brillare, che li rende abbaglianti. 
Non importa per quale motivo ti trovi al Diavolezza, non importa in che veste, con quali aspettative e con quali progetti. Se sei lì non puoi che guardare a quella montagna e alla sua parete. Lo fa il turista giapponese che scatta foto con il suo enorme teleobiettivo, lo fa la ragazza ben vestita che la osserva con un iniziale scarso interesse, ma che non riesce a toglierle gli occhi di dosso, senza forse neppure sapere che cosa sia. Lo fa il cameriere che lavora al rifugio, che invece la conosce bene e che la guarda fumando intensamente, gettandole addosso tutti i pensieri che gli riempiono il cervello. 
E poi la guardiamo noi, cercando in quella parete la via che abbiamo studiato, che siamo venuti a scalare. Speriamo di riconoscere un segno, di trovare un qualche conforto in quell'enorme tempio la cui realtà (sappiamo bene) sarà sempre altro da quanto ammirato in foto. E' questo un momento intensissimo, lo spazio temporale in cui si cerca di trasporre l'idea, il progetto, nella concretezza di qualcosa che è immensamente altro da te. Qualcosa che però sembra custodire un segreto che è anche il tuo, misteriosamente, fatalmente, intimamente. Una bellezza infinita che ti chiama inesorabilmente. 

E' ancora piena notte quando lasciamo la tenda, ma il buio è riempito dalla luce intensa della luna, che argentata rende tutto fatato e spettrale. 
Le condizioni sono ottime, ma come sempre l'avvicinamento sembra interminabile. Incontriamo qualche rara persona lungo il nostro cammino: una coppia si accinge a sciogliere la neve fuori dalla propria tendina, qualche alpinista sale lentamente per la via normale, una cordata attacca la Kuffner. Noi soli proseguiamo per la sezione più lontana, selvaggia e solitaria della parete: lo sperone Zippert. 
Camminiamo silenziosi, avvolti nell'immensità del ghiacciaio che inizia a tingersi dei colori del mattino; sopra di noi la montagna si innalza spaventosa. Superati i resti di alcuni enormi seracchi crollati, iniziamo a risalire il cono nevoso che fa da trampolino alla nostra via. 
Ci fermiamo a studiare la situazione, lì in piedi sotto alla nostra linea, davanti alla porta del nostro cammino. Ci leghiamo quasi tremolanti, con reverenziale timore. 
Ale fissa la sua piccozza nella superficie dura del manto nevoso, mentre io inizio a strisciare lungo la grossa cornice che fa da ponte sulla crepaccia terminale. Con un passo delicato ma deciso pianto il rampone nel fianco del seracco, ficco le picche al di là della voragine e passo, iniziando a salire verticale verso l'alto. 
E' l'inizio di un viaggio immenso, di una danza estenuante, di una scalata che dura come una vita intera. 
Percorso il lungo couloir tra neve ottima, salti di misto marcio e piccole cascatelle di ghiaccio spaccoso, ci inoltriamo nella sezione più maledetta della parete. Arrampichiamo su roccia coperta da una spanna di neve pesante, dove ogni metro va guadagnato precariamente, grattando i ramponi alla disperata ricerca di un appoggio. Saliamo in diagonale, piazzando qualche rara protezione dal valore prevalentemente psicologico, fino a trovare un passaggio nella grande muraglia verticale che ci sovrasta. 
Avanziamo con alcuni tiri di misto, sempre delicati, sperando di poter finalmente raggiungere l'ultima parte dello sperone, che la nostra relazione descrive come una ripida lama di neve di 300 metri. 
Quando però con un ultimo tiro incerto esco da un camino di roccia marcia, bucando la cornice che fa da tappo al filo dello spigolo, inizio a temere che le rogne non siano ancora finite. Al posto di un'uniforme rampa nevosa, mi trovo infatti davanti una maledettissima processione di merli e contrafforti rocciosi, misti a neve per nulla sicura. 
Non c'è niente da fare, è la montagna a condurre il ballo e tocca a noi adeguarci: d'altronde è questa l'essenza dell'alpinismo. 
Con i nervi sempre più a fil di pelle avanziamo in conserva protetta. A destra la neve è dura, ma il pendio è verticale e non sempre è agevole passare, a sinistra la neve è invece marcia e insidiosa e si stacca in sibilanti slavine ogni volta che proviamo a piazzare un appoggio. In mezzo passiamo noi, superando uno dietro l'altro i salti rocciosi che ci fanno dannare. Ormai sono troppe ore che siamo dentro a questa infernale parete. 
Raggiunta una selletta nevosa decretiamo che non è più il caso di continuare su questo terreno che ci sta rendendo troppo lenti. Così decidiamo di fare quello che ieri ci eravamo promessi di non fare: buttarci sullo scivolo nord est, pericoloso per le valanghe, ma teoricamente più rapido. 
Con un delicato traverso ci portiamo così in piena parete, ma le speranze di una progressione veloce vanno ancora una volta a farsi benedire; mi trovo infatti a tracciare nella neve fradicia che arriva a mezza coscia. Sono esausto, sempre più frequentemente devo appoggiarmi alle picche per rifiatare. Ale mi incita, si propone anche di passare davanti lui, ma sono ormai troppo posseduto da questa parete per poter cedere anche solo un pizzico di questa massacrante sublimità. 
Come se non bastasse le cose iniziano anche a complicarsi, perché più saliamo più ci troviamo ad intersecare colate di ghiaccio vivo e duro come pietra. Sembra un paradosso, io continuo a borbottare, a imprecare passando dall'affondare come fossi nelle sabbie mobili, a piantare viti da ghiaccio come fossimo su una cascata in pieno inverno. Sembra che ogni legge fisica qui non valga, qui vale solo la montagna e le nostre strane idee che ci hanno portato ad infilarci su di qua. 
Più in alto, ormai allo stremo, decidiamo di piegare ancora una volta andando a riprendere il filo dello sperone. La vetta è una cinquantina di metri sopra di noi, ma sembra non arrivare mai. Noi affrontiamo un torrione dopo l'altro, con affanno, senza poterci permettere di perdere neppure per un istante la concentrazione. Continuiamo a ripetercelo: “attenzione, attenzione”. 
Quando con un ultimo passo sbuco oltre l'ultimo salto di misto e vedo solamente una lama di neve compatta tra me e la fine della parete, non riesco a crederci e sento nel cuore un'emozione immensa. Chiamo Ale, grido, mentre lui è impegnato sull'ennesimo passaggio delicato, poi avanzo godendomi quegli ultimi passi come fossero la cosa più bella del mondo, ed in fine, finalmente, eccomi in cima! 
E' strano, è come se improvvisamente mi accorgessi che c'è la luce, che la neve è bianca e il cielo è azzurro. Ale mi raggiunge, ci sediamo a mangiare qualcosina facendo fatica a trovare parole da dire, ma non serve. Qualche cordata ci passa vicino, stanno facendo la traversata delle creste e si complimentano con noi, guardando un po' increduli le nostre tracce che precipitano giù nell'abisso inghiottite dalla parete. 
Iniziamo la discesa il cui primo tratto è in realtà una cavalcata in cresta che ci porta a toccare le tre cime del Palù. Poi giù, giù lungo gli ampi tornanti che aggirano i grandi crepacci. Quando giungiamo finalmente alla nostra tenda siamo dei cadaveri ambulanti: stanchi morti, bruciati dal sole, spossati, quasi fatichiamo ad articolare frasi di senso compiuto. Beviamo tutto quello che abbiamo lasciato al campo: acqua, birra, vino. Poi riguardiamo quella parete, ora che abbiamo recuperato almeno la forza che ci permette di poterlo fare, di poter constatare ancora una volta la bellezza immensa di quel mondo gigantesco.

venerdì 10 aprile 2020

La Via del Blues (il Duca)

Sdraiato lì sul letto, rinchiuso in casa forzatamente da più di un mese: nervoso, frustrato, incazzato nero.
Le lezioni online di oggi sono finite, ancora sento il fastidio delle cuffie sulle orecchie, ancora sento il fastidio delle solite cose che semplicemente hanno perso la loro fisicità per acutizzarsi nel virtuale.
Dovrei studiare, ma il senso di indefinito, di incertezza, oggi mi ha tolto ogni stimolo, sembra aver appassito persino la mia voglia di fare ciò che mi piace.
Me ne sto semplicemente lì sul letto, irrequieto, all’odiosa ricerca del nulla.
Faccio partire la musica sul mio telefonino, a caso, senza una logica. Il mio amore per il silenzio oggi se ne è andato chissà dove; provo a riempire la testa, ma le note sembrano sorde, sembrano volatizzarsi nel cielo oltre la finestra.
Passa una canzone, poi un'altra; non saprei mai dire quante ne trascorrono, come gli insipidi minuti di queste giornate. Eppure improvvisamente, come una porta che si apre sbattendo, una vibrazione rompe il muro del nulla e dell’odio: un tintinnio di chitarra blues.
Non so neppure che canzone sia, non mi interessa. Non so nemmeno chi la suona, ora non importa. Quella vibrazione mi fa tornare in una macchina tanto tempo fa, con gli amici, le chiacchiere e gli zaini nel bagagliaio.

Il blues era la colonna sonora, la corda che univa viale Corsica al sogno di giornata. Si partiva eccitati, preoccupati, raramente spensierati. A volte incazzati, a volte felici, a volte distratti, ma soprattutto si partiva perché quello era il motivo per cui vivevamo. Non importava se eravamo in due o in cinque, il blues non mancava mai: quel tocco di chitarra era qualcosa di imprescindibile, almeno quanto la piccozza sul ghiaccio e il friend sulla roccia.
Penso a quei momenti, anzi ne sento l’essenza preziosa scorrermi sulla pelle. Sono queste note che riescono a farli vibrare in modo così vivo, sotto anni di altre cose accumulate. Perché non è solo il covid e la carrellata di assurdi decreti ad aver ostacolato la via del blues, già da tempo la corsa si è rallentata.
Parliamoci chiaro: negli ultimi anni ho scalato una marea di montagne, centinaia e centinaia, ovunque: Europa, Asia, America. Ho vissuto esperienze grandiose, momenti stupendi ed esaltanti. Solo pensando all’ultimo anno ho ancora nel cuore la bellezza dello Spigolo dell’Orso, la mitica eleganza dell’Eiger, l’avventura della cresta del Nery, in prima invernale. Non posso che custodire con nostalgia la libertà provata nel regno dell’Ela, il grande viaggio dall’Ararat al mare, la solitaria sulla nord del Mulhacen.
Eppure l’epopea del blues era altro, non dico meglio, ma qualcosa che abbiamo perso dimenticandolo.
Eravamo meno esperti, forse meno forti, certamente meno consapevoli. Però avevamo davanti un ventaglio di sogni tutti ancora da osare, da scoprire. La fantasia correva ancora spaziando verso l’infinto, come un puledro selvaggio lanciato verso l’alba: si andava in montagna freneticamente, ingordi come un affamato che si getta su una tavola imbandita.

E’ inevitabile, si invecchia e le prospettive giustamente cambiano; l’amore evolve dalla passione giovanile alla profondità più consapevole del matrimonio. La montagna è là che ci aspetta, il nostro ossigeno, la nostra dimensione da cui nulla riuscirà a tenerci lontani, costi quel che costi. La nostra casa che ci consente di respirare e di essere vivi. 
Però stasera, sorprendentemente, sono meno incazzato del solito: in questo blues che continua a graffiare ho riscoperto il sangue vivo, il mio sangue più rosso. I miei amici sono a distanza di una telefonata, le montagne sono sempre belle, e noi abbiamo nelle scarpe la stessa storia, in petto il medesimo cuore che batteva sulla strada tra Viale Corsica e i nostri sogni: lungo la via del blues. Stasera sono più forte di tutto, del virus, della gabbia, dell’idiozia dei nostri governanti e della sfiga! Sono ancora vivo col mondo dinnanzi.

giovedì 31 ottobre 2019

Eiger (il Duca)

Mi sembra di essere in un film, in una cartolina guardata mille volte, mentre il treno faticosamente sale lento verso l'alto. Provo ad immaginare cosa pensassero Heckmair, Aste, Ueli Steck e tanti altri salendo lungo questi binari, con i prati verdi da una parte e le nubi che avvolgono il mostro dall'altra.
Lallo è seduto davanti a me con il suo zaino e lo sguardo oltre il vetro del finestrino. Io non riesco a stare fermo, dopo anni di attesa sono davvero su questo treno e voglio cercare di raccogliere il più possibile, ogni minima sensazione.
Mi allungo a guardare per l'ennesima volta fuori: le nubi si alzano veloci, la parete si mostra pezzo dopo pezzo, eccola! Gigantesca, più di quanto si possa immaginare, imponente, così carica di mito che il cuore ti balza in gola e non puoi fare altro che incollarle gli occhi addosso.
Il treno sale, entra nella montagna e poi si ferma dove tutti scendono. La maggior parte si butta verso le enormi vetrate ad ammirare l'Oberland, i suoi ghiacciai e le sue montagne, dal suo osservatorio più famoso. Noi soli stiamo in disparte ad attendere.
Il capo treno chiama, tutti sciabattando tornano sulle vetture, poi, preceduto dallo stridore della cremagliera e dal cigolio del treno che riparte, cala il silenzio assoluto. Ora siamo da soli, come complottisti nella stazioncina del treno. Vaghiamo un po' per le gallerie nella pancia dell'Orco, spalanchiamo una porta di legno e procediamo al buoi, a tentoni. Una seconda porta e la luce accecante del mondo esterno ci colpisce.
Mi sembra ancora di essere in un film, di essere in quella cartolina guardata mille volte. Ma ora la roccia del grande protagonista è davvero sotto ai miei scarponi e le mie dita ci scorrono davvero sopra, toccandone la ruvida essenza. Facciamo una prima calata oltre il grande crepaccio terminale, siamo intorbiditi dal trovarci avvolti da questo alone mitico. Una tremenda scarica di sassi fischia a qualche metro da noi, è questa la nostra terribile sveglia... ora lo sappiamo: l'Eiger è reale più che mai!

La sera al rifugio cerco di rilassarmi, ne ho una gran voglia e aspettavo questo momento; ma è impossibile con quella montagna che incombe là fuori. Continuo ad uscire a guardarla, a scrutare le nubi che la avvolgono. Ricerco qualcosa là dentro, dentro a quei profili di roccia incrostati di neve e ghiaccio, dentro a quelle linee verticali e terribili, sognate così a lungo.
Tutto poi si spiega lentamente, il giorno dopo. Partiamo con il buio e i primi passi, seppur semplici, sono incerti. Poi a mano a mano che si va avanti, che saliamo come formichine sulle spalle del gigante, il rapporto con quella montagna si consolida. Ad ogni appiglio, ad ogni passaggio, ad ogni decisione sulla linea da seguire, entra in gioco tutta l'esperienza accumulata negli anni. E' come se nel corso nella scalata, su per quella montagna fredda e leggendaria, ritrovassi i pezzi della mia vita, me stesso, le mie certezze che troppe volte sfuggono.
Salgo verticale e sicuro: i ramponi si incastrano perfettamente nelle crepe della roccia, le mani godono nel tocco gelido della pietra vetrata; io mi chino a guardare sorridente Lallo, che sotto di me avanza sulla lama sottile, venendomi dietro. Siamo una cordata sulla linea del nostro sogno comune, siamo uniti in questo desiderio concreto, sono felice come un bambino a Natale!
Arrivati in cima ci stringiamo la mano e ci complimentiamo. Non ci sono le urla di esultanza che ci si potrebbe aspettare su di una vetta corteggiata per anni. Ci sediamo in silenzio, uno accanto all'altro, sulle pietre della cima. Il vento gelido ci soffia in faccia, mentre noi ne ce stiamo lì, sereni e beati come due uomini in cima all'Eiger.

martedì 29 ottobre 2019

Elogio della Pioggia (il Duca)


Seduto qui, al mio tavolo avvolto nel silenzio, ascolto la pioggia tintinnare sul lucernario.
La pioggia batte, le gocce strisciano sul vetro riflettendo la luce grigia che appena si rispecchia sull'acqua. E insieme alla luce si rispecchiano i miei pensieri e i miei ricordi: torbidi, lontani, alla disperata ricerca di riemergere dal passato.

Ed è la pioggia: la pioggia ricca di profumi, come quella osservata rintanati in una baita che sa di stalla. La porta di legno annerita e il tetto di ardesia. Quei prati verde scuro che si arrampicano sui fianchi della montagna, gonfi d'acqua, avvolti dalle nubi bianche e fumose. Noi dentro alla baracca bagnati fino al midollo, con ancora gli impermeabili addosso che gocciolano pesantemente. Noi dentro alla baita felici, nonostante la pioggia; felici di essere qui con un pezzo di formaggio in mano, anch'esso fradicio: ma chi se ne frega!
La pioggia che sa rincorrerti, come quando spazza i ripidi fianchi del Rosa, portandosi via la neve e lasciando il ghiacciaio nero. Noi che scappiamo con le picche in mano, increduli di trovare acqua in alta quota. Quella pioggia che ti fa scivolare, ti dà velocità facendoti bruciare le mani sulle lastre di ghiaccio. E poi arrivi a valle sfatto, bagnato, sanguinante e stupidamente felice, perché nonostante tutto anche quella volta l'hai scampata; nonostante la pioggia che ora batte innocua sul parabrezza della macchina.
La pioggia che sa essere martellante, fino a quando ti educa, fino a farti abituate al suo tocco bagnato. Fino a diventare una compagna accettabile, come là sul Rwenzori.
La pioggia che sa cantare melodie frusciando tra le foglie degli alberi, invadendo con dolcezza la magia delicata del bosco; danzando con i timidi raggi di luce.
La pioggia che è un padrone freddo e tiranno. Che si impone nonostante i piani perfetti, che inzuppa le corde, impregna la ferraglia, si impossessa dell'umore e di tutto quanto può contenere uno zaino. E poi si mangia anche la roccia e gonfia i torrenti e cristallizza sui muschi con bellezza assoluta.
La pioggia che ti inchioda nel bivacco e decide che è il tuo giorno di riposo. Volente o nolente crea un muro tra te e il mondo ostile, proteggendoti, cullandoti e restituendoti poi felice, ancora una volta, misteriosamente.

La pioggia che picchietta su questo lucernario, che io lo voglia o no, perché nessuno ci può fare proprio niente. Perché la pioggia cade, nonostante tutto: sta a noi saper cogliere il profondo incanto che si porta dietro.

mercoledì 5 giugno 2019

Ghiaccio, Roccia, Mare (il Duca)

Procedo nel buio intenso, seguendo le ombre scure che appena si notano nella notte.
La neve è dura, gli scarponi scricchiolano ad ogni passo procedendo dietro all'intuito. Si percepisce lo spazio aperto della vallata, col leggero vento freddo che la percorre.
Arrivo al passo, mi fermo precipitando in un silenzio assoluto, dove persino i pensieri fanno fatica a sussurrare. Ed è qui, in questo immenso buio muto, che la luna irrompe con i suoi raggi argentati, sorgendo dalla punta del Mulhacen, rotonda come uno specchio. Quella luce pallida si allunga, conquista tutto, come uno spettro che scendendo dalla cima della montagna striscia in ogni piega del mondo.
Mi allungo anch'io, verso la mia parete che si innalza nella notte ancora intensa, la notte profonda del versante nord.
A raccogliere i riflessi della luna lì è solo il ghiaccio: colate gelide che incrostano i precipizi di roccia, con i loro speroni e colatoi verticali. Quel gelo sembra penetrare direttamente nelle mie ossa, quella parete sembra ora troppo spettrale per tentarla per davvero.
Eppure, con la paura che si insinua nel cuore, con il senso di impossibile che bussa nel cervello, non ci si ferma. E' strano, l'attrazione per quella parete non lascia facoltà di fermarsi, a volte ci si sente quasi condannati, a volte è solo così che si va avanti. Come quando si è innamorati.

Coi ramponi buco la cornice e inizio a calarmi, scendendo nel buio lungo i fianchi di neve dura. Le picche tengono bene, sono sul ripido eppure mi danno una sicurezza incredibile. Arrivo alla fine del pendio ed inizio a costeggiare la base della parete alla ricerca della sua verticale; ho in testa esattamente dove attaccare, adesso sento il mio passo sicuro e penso solo alla bellezza che mi aspetta, alla mia scalata.

Salgo, salgo sempre. Sono veloce, molto più di quanto riesca a rendermene conto. Supero diverse colate di ghiaccio vivo e senza fermarmi procedo verso l'alto. E' come se avessi addosso una fretta maledetta, la voglia di godermi tutto quello che la mia parete racchiude, senza perdere tempo.
Raggiunta la strozzatura, al posto di aggirarla sulla destra, la attacco direttamente, scalando un delicato passaggio di misto con roccia sporca di neve fresca.
Ora traccio nella povere fonda, in una grande conca all'ombra della vetta. Non punto alla spalla, a nessuna delle uscite laterali, ma ad una camino che mi sembra la giusta risposta a questa mia danza con la montagna. E' una ricerca intima, all'interno delle pieghe della parete, la ricerca di qualcosa che mi corrisponde.
All'attacco del camino trovo un chiodo, il segno che qualcuno da qui è già passato, lo prendo come una conferma. Salgo, la pietra intrappola un po' di sole, è la prima volta che oggi lo tocco. Afferro un ultimo pezzo di roccia ed ecco che mi ritrovo sulla cresta sommitale.
Non mi fermo, non ora, non ancora. Procedo lungo il bordo della parete in modo ancora frenetico, salgo attendendo quello che ad un certo punto trovo: il punto massimo della mia montagna, la cima. Ci sono!
Ecco, adesso sì che guardo l'orizzonte. Alzo lo sguardo in direzione opposta a quella da cui sono sbucato, dall'altra parte rispetto ai precipizi di roccia e ghiaccio, neve e ombra. E dall'altra parte c'è il miracolo di questa montagna: il blu del mare e i dolci profili delle sue spiagge. E' un miraggio, una visione commovente, o più semplicemente la bellezza di un respiro di sollievo.

giovedì 17 gennaio 2019

Il Manichino (il Duca)

Si fermò all'improvviso, arrestando il suo passo, e guardò dritto dentro alla vetrina.
Chi lo notò per caso, tra la gente che gli passava attorno, ebbe l'impressione di trovarsi difronte ad uno squilibrato (o a un qualche visionario) e tirò dritto come gli altri.
Lui vide il manichino dall'aspetto giovane e sensuale, seppure immobile e fasullo, e lo guardò con la stessa inquieta espressione con cui guardava le sue colleghe di lavoro.
Non sapeva che farsene di un manichino, non avrebbe mai pensato di comprarne uno, però in qualche modo quella persona finta lo affascinava, ma forse se ne rese conto veramente solo in quel momento.
Il manichino era una figura femminile, gambe lunghe e seno abbondante, il tutto contornato da un vestitino rosso che risaltava il bianco della plastica. Non aveva nemmeno la parrucca, ma due lunghe ciglia che le coronavano gli occhi spenti.
Rimase li a fissare dentro alla vetrina, assorto nella sua visione poco inusuale, che però quel giorno era riuscita a stupirlo. Rivangava nel cervello come alla ricerca di un qualche pensiero, una congettura che gli svelasse il significato di quel suo curioso interessamento.
Pensando perse il punto focale del manichino e come in un film gli occhi si assettarono sul vetro della vetrina, che come uno specchio rifletteva l'altro lato della strada.
Ora guardava l'immagine proiettata di un uomo che sedeva su di una panchina; forse era alla fermata di un autobus. L'uomo era vecchio, o così almeno appariva ad una prima occhiata, portava una giacca marrone forse un po' troppo oltre la sua taglia e la barba era malfatta. E poi indossava dei jeans che, non so perché, definirei trasandati.
Trasandato, ecco, questo era il tratto caratteristico dell'uomo seduto sulla panchina, era il tratto che lo distingueva nettamente dal manichino dall'altra parte del vetro.
Oltre al vetro una donna finta, perfettamente incarnante il suo status, il suo essere sociale; riflesso nel vetro invece un uomo trasandato, ombra specchiata di una persona che andrebbe ripulita e risistemata. Aiutata.
L'uomo sulla panchina attraversò la strada e si diresse verso quell'altro tizio incantato davanti alla vetrina:
“Non hai perso il vizio di scorgere Nietzsche in ogni dove?”
Lui si girò lentamente. Non scattò, ma caricò quel suo volteggio di tutta l'intensità di cui disponeva:
“Cosa sarebbe Nietzsche senza Platone...” fece fatica a completare la frase perché un groppo alla gola gli crebbe come un melone.
Faceva fatica a constatare quanto avesse perduto in tutto quel tempo, come era stato possibile. Allora sembravano immortali, eroi invincibili destinati a cambiare il mondo, ora erano riflessi trasandati in una vetrina, fissi a guardare un manichino.
Come era stato possibile? Eppure era accaduto.

Ora stavano seduti in un bar e ricordarono la frase detta un milione di anni fa, da uno di loro: “ogni vera ontologia scorre nella dialettica di un caffè”.
Sorrisero al ricordo di quella frase, uno dei due accennò perfino una mezza risata, ma risultava troppo falsa e forzata, così la strozzò in gola.
“Sai qual è la cosa peggiore amico mio?”
“Dimmi...”
“Constatare l'impossibilità dell'azione. Non che le condizioni non permettano di agire, perché se così fosse basterebbe attendere il giusto momento. Ma la cosa peggiore è l'impossibilità dell'azione dovuta alla mancanza di idee, del cosa-fare”.
“Per farmi capire meglio di cosa parli, dovresti dirmi di quale problema stiamo trattando...”
“Stiamo parlando DEL problema! Che fine hanno fatto i sogni, le speranze? Eravamo gli uomini che guardano oltre la grotta, gli spiriti liberi, che fine ha fatto il nostro esserci?”.
L'amico lo guardò con un'occhiata severa, un mezzo rimprovero:
“Mi tocca fare il realista amico mio: i sogni erano sogni e tutto il resto ragazzate, illusioni. Siamo atterrati nel mondo e contro di quello non si vince, al massimo ci si adegua...”
“E a te va bene così? Ti senti a posto?”
“Poco importa quello che va bene a me o no, che alternativa c'è, che possibilità abbiamo? Il mondo viene prima. La realtà. Noi dobbiamo avere a che fare con questa, non c'è altro substrato. O hai qualche altra idea, che sia un'idea possibile del fare?”
“Ecco, ci sei; questa è la cosa peggiore, la mancanza di altra possibilità. Possiamo solo constatare l'impossibilità dell'azione altra, l'impossibilità dovuta alla mancanza di idee: siamo troppo vecchi per sognare...”
“Ma troppo vivi per non essere insoddisfatti, non pensare che non ti capisca. E quando si è disillusi la speranza diventa malinconia e noi siamo a questo punto”.
Sorrisero entrambi, insieme, e questa volta il gesto era sincero, pulito.
Lentamente come un torrente fangoso la dialettica aveva ripreso a scorrere. Non che avrebbe portato da qualche parte, ma per un attimo era tornata a muoversi. Fu allora che pensarono che forse non è neppure la strada, ma il metro successivo che può dare una qualche speranza: l'unico punto di contatto tra volontà e potenza, come diceva quell'altro tizio che oggi non c'era.
Avevano finito di bere il loro caffè e si stavano per salutare, lo sapevano. La finestra vicina al loro tavolino dava sulla strada, dove sorgeva un negozio con una grande vetrina. Di fronte al negozio stava parcheggiato un furgone rosso con una scritta bianca, due operai stavano caricando sul mezzo un manichino, presto lo avrebbero sostituito ma ora non importava: la malinconica speranza, una volta su un milione, aveva vinto sull'impossibilità dell'impossibilità. Per oggi a loro bastava così.

venerdì 27 aprile 2018

Costruire un Sogno (il Duca)


Domenica mattina: sulla mia scrivania c'è il portatile aperto, attorno: foto, appunti, fogli e quaderni. Allungo lo sguardo soddisfatto, vorrei che quell'istante di pura e dolce illusione durasse in eterno.
A pranzo siamo attorno al tavolo, si chiacchiera mangiando formaggio e salame, accompagnati da vino e sidro di mele. Guardo i volti dei miei amici, uno ad uno. Ognuno ha le proprie storie scritte sulla pelle, ognuno è lì con la propria vita quotidiana incastrata fra le dita e l'insopprimibile capacità di sognare.
Sento che c'è qualcosa di speciale, una certa gratitudine mi inonda il cuore. Saremo capaci di coordinare i nostri sogni? Di seguire insieme quella vocazione che ci ha fatto accumulare esperienze? Quelle esperienze che troppo spesso diamo per scontate, ma che hanno qualcosa di straordinario, che ci hanno resi ciò che siamo.
Guardiamo insieme il piano per un sogno: si parla di giorni, di hotel, auto a noleggio, bivacchi. Si discute di aerei, si prendono appunti, si tratta di corde, mappe, permessi, piccozze.
Osservo ancora il volto dei miei amici, uno ad uno. Ci siamo divisi i compiti, la sensazione è quella di chi si sta avvicinando alla parete, la osserva sapendo che c'è ancora da faticare, ma già la sente vicina, ne percepisce lo spirito potente.
La scalata di un sogno a volte parte da lontanissimo, e oggi, nella bassa milanese avvolta dal brutto tempo, già ci stiamo avvicinando ad una montagna aguzza nel cuore del Canada. Il sogno è ancora fragile, bisognerà incaponirsi e non perdere la rotta per non lasciare che si infranga.
In alpinismo c'è un vantaggio fondamentale: l'irresistibile richiamo della meta. In questo richiamo si costruisce tutto, un pezzo per volta. E ora si tratta di seguirne ogni pezzo, uno ad uno, assaporandone ogni parte.

mercoledì 18 aprile 2018

La forza di un'attesa (il Duca)

Lei è la parete Fasana, enorme, selvaggia, sconosciuta.
S'innalza dal versante più nascosto delle Grigne e severa si affaccia sulla curva più a nord della Val Sassina, gettando la propria ombra su di un paesino dal nome affascinante: Primaluna.
Proprio da qui l'ho osservata la prima volta, prendendo un caffè ad un bar semivuoto, la mattina presto, attraverso una vetrata con la scritta blu. Proprio da qui ne sono stato rapito.
Come tante volte succede l'idea è arrivata da Ale. Gliene aveva parlato direttamente il Festorazzi durante una tappa al Brioschi, con quel bicchiere di rosso che sa sempre mescolarsi al sapore di nuovi sogni.
Si tratta della via Volpe Bianca, aperta nel 2008 quasi in segreto e poi fatta sparire da ogni documentazione, come fosse un mistero da custodire gelosamente.
Sono passati dieci anni, dieci anni in cui se ne è parlato spesso. Lei era lì, ma noi non eravamo pronti, o forse lei non era ancora disposta a lasciarci avvicinare.
La parete attacca bassa e poi si alza fino ai 2248m del Pizzo della Pieve, lasciando sempre dubbi sulle sue giuste condizioni. E' capace di mostrarsi imbiancata e gonfia di neve, con le valanghe che le tuonano mastodontiche lungo i fianchi; ma pochi giorni dopo puoi già trovarla spoglia e grigia, vera roccaforte di puro calcare.
La sua roccia è ruvida come la dolomia vergine, ma allo stesso tempo è fragile e insidiosa. Il suo ghiaccio è spaccoso, la sua neve soffice, gli infiniti canali e speroni la sorreggono come la colossale facciata di una cattedrale gotica, annerita dagli anni. Lei è bellissima e sublime.
Fa impressione, dopo tanti anni che se ne parla, partire davvero per realizzare un sogno, per scalare quella via. Improvvisamente ci si rende conto che lei è veramente lì, se ne riconosce il profilo osservato per anni in foto, se ne sente il profumo che si ha solo provato ad immaginare.
E a guardarla sbucare oltre le onde della neve, quella parete ci ha cacciato un brivido gelido su per la schiena. Il vento soffiava tagliente sulle nostre facce, mentre immobili stavamo a guardare quelle pieghe che da immaginazione diventavano reali.
E reale era il ghiaccio su cui picchiavano le nostre piccozze, la neve dove affondavamo con fatica; la roccia incrostata su cui cercavamo una soluzione, con la corda che scorreva nel moschettone del frend. La bellezza di sbucare sulla cresta sommitale, dove la neve danzava cullata dall'aria della cima, con le nubi bianche che impazzavano sul filo di cornici.
La gioia di quella bellezza è qualcosa di misterioso e commuovente. Con ai piedi la grande parete, con nel cuore l'attesa che si schiude, come un fiore paziente che finalmente può aprirsi sprigionando quello che ha coltivato per tanto tempo. La forza di un'attesa che si illumina vestita di pura felicità.

lunedì 5 febbraio 2018

Tomek, sognare più vero (il Duca)

Il Nanga Parbat, la montagna assassina.
Così recita il cartello che dalla strada invita i passanti ad ammirare il grande gigante del Kashmir, avvolto nella sua armatura di seracchi e rocce verticali.
La montagna appare cattiva, terribile e inaccessibile. Enorme.
Eppure alcuni uomini hanno dedicato un gran pezzo della propria esistenza a bramarla, a sognarla, ad adorarla. Bellezza ammaliante che richiede sacrifici e sforzi enormi. Fatiche immani, gelo, lacrime, perdite irrecuperabili.
Che cosa si nasconde lassù perché uomini le sacrifichino davvero la propria vita? Qual è il richiamo irresistibile che da quella vetta scende inondando il cuore? Che cosa canta la montagna dall'alto della sua indifferente eternità?
Follia? Desiderio? Di cosa?

Un pensiero mi martella nella testa, continuamente, fin da quando l'elicottero pakistano ha portato in salvo Elisabeth. Penso a Tomek lassù sulla montagna, cieco e infortunato nel crepaccio a 7300m, rannicchiato, solo.
Avrà sentito l'eco dell'elicottero avvicinarsi e poi allontanarsi dai fianchi del gigante? Quando si sarà rassegnato, accantonando ogni speranza di salvezza?
Penso all'alpinista polacco che per sette volte si è portato ai piedi del Nanga Parbat, in inverno, quando il freddo è insostenibile e le condizioni proibitive. Ha corteggiato quel colosso terrificante, luminoso, bellissimo.
Ha provato a scalarlo da ognuno dei suoi versanti, da diverse vie, con diversi compagni; sempre col suo stile.
In anni di alpinismo himalayano Tomek non ha mai affrontato un altro ottomila, non ha mai provato ad attaccare il Nanga in estate, per vedere com'era. Tomek era forse un pazzo, squinternato, equipaggiato ai minimi termini e senza un becco di quattrino, però aveva ben chiaro il suo sogno: si chiamava Nanga Parbat, in inverno.
Chissà nella profondità del suo cuore, conservato in un corpo che stava morendo congelato e disidratato, cosa provava Tomek. Chissà lì nel crepaccio, alla fine del suo cammino, cosa pensava Tomek che finalmente sul Nanga Parbat ci era stato per davvero, fino alla cima, in inverno.

C'è qualcosa di straordinario nella realizzazione di un sogno, di un sogno così grande che è terribile, che richiede sacrifici enormi e fatica e perdite irrecuperabili. C'è qualcosa di straordinario che fa commuovere perché non è un bel sogno, non è uno di questi sogni che ci hanno insegnato a sognare.
Si tratta di quello che Nietzsche chiamava sognare più vero. Si tratta di accettare il prezzo del proprio desiderio e affondare la propria vita nella durezza della terra, passo dopo passo, verso una bellezza enorme. Una bellezza immensamente più grande di noi che però sa chiamarci in modo inesorabile, intimamente, fino alla profondità del nostro essere.
Forse per un ideale così, che è molto più di un sogno, val la pena dare la vita: val la pena vivere, per davvero.

venerdì 24 novembre 2017

Rinascita (il Duca)

Sabato mattina; mi sveglio che il tempo è bello.
Da un po' non vado per un motivo o per l'altro, ma la voglia c'è. Salgo in macchina e parto per la montagna più vicina: il solito Resegone.
Parcheggio e imbocco il sentiero per i Piani d'Erna, poi mi porto verso nord e salgo a caso per il bosco, su terreno ghiacciato e neve fresca. Un ultimo canalone di rocce incrostate ed eccomi in cima al Pizzo Morterone, dove anni fa ero sbucato dopo una via impegnativa.
Ora sono tranquillo e al sole, col sentiero delle creste a tratti imbiancato e a tratti ancora estivo, circondato da erba e rocce candide.
Cammino senza fretta, godendomi il panorama che si innalza al di sopra della foschia che ricopre la pianura; la bellezza è tutta attorno a me, mentre io percorro i miei pensieri.
Supero alcune cime minori, su e giù. Ripasso il nome delle vette, delle vie, dei canaloni che salgono dal versante lecchese di questa piccola montagna, vero mondo complesso. I camosci corrono lungo i terreni più impervi, scappando all'ombra per poi fermarsi a guardarmi: sentinelle delle torri di calcare.
Supero la traccia del canale Bobbio, aggiro il Dente del Resegone e scendo alla bocchetta successiva. Mi avvicino, accelero un po' il passo e butto giù un occhio: giù per quel famoso budello. Un brivido mi percorre la schiena, un leggero sorriso mi solca il volto. Quanti ricordi.
Riguardo giù attentamente, scrutando quelle rocce grigie e umide alla ricerca delle sensazioni là perdute. Me lo dico ancora: “laggiù non ci tornerei mai più, ma ne è valsa la pena!”.
Quel canale è un viaggio, una salita a cui ho osato pensare per molto tempo, un po' titubante. Quel canale è un incubo e un sogno, una domanda e una risposta: un viaggio nel cuore della montagna con l'amico Ale.
Sale il budello tra placche e sottili goulotte di ghiaccio fragile. I pezzi di metallo della vecchia ferrata penzolano appesi e minacciosi, carichi di ruggine come brandelli di una civiltà ormai perduta, mangiata dalla parete selvaggia.
Poi i camini stretti, pareti lisce e vetrate segnate dai graffi bianchi dei ramponi. Lo stridore delle punte sulla roccia, le scintille e l'odore di zolfo che alimenta quella sensazione di essere davvero nel cuore dell'inferno.
Lo sforzo tremulo nel cercare di strisciare verso l'alto, con tutti i muscoli tesi e la percezione appiccicosa della precarietà. Il buio che sembra incupirsi sempre di più, mentre gocce di ghiaccio precipitano continuamente, tintinnando sul casco e sulla faccia. Il gelo che colpisce le ossa, ancora prima che la pelle, l'umido.
Infine l'ultima sosta, la neve che diventa più spessa, il rampone che finalmente tiene bene. Tornare al giorno, al sole che fa brillare il manto bianco della cresta e noi che felici ci sdraiamo alla luce, ormai fuori dalle difficoltà. E' qui che con un sorriso abbiamo riscoperto il contrasto tra il buio inquietante del canale e la luminosità della vetta: è stata la rinascita!

In questo tranquillo sabato sono ancora lì che scruto nostalgico quelle rocce grige e lugubri, e sorrido. Quanto è tutto più facile in alpinismo. Quanto è bello l'alpinismo dove si può lottare andando alla montagna e poi rinascere nella bellezza, ridendo e riscoprendosi felici. Quanto è bello l'alpinismo, per davvero!

sabato 11 novembre 2017

Il riposo (il Duca)

Riposo, quiete.
Il silenzio di un bivacco con l'amico. Fuori il vento soffia tremendo, facendo scricchiolare la struttura della nostra tana, dentro il fornellino fischia sotto al pentolino.
Fuori la notte buia, con le stelle fredde che macchiano il cielo in una volta, corona sopra alle cuspidi rocciose. Dentro due amici seduti su vecchi materassi, attorno al tavolo di legno ruvido. Sapori di cibi diversi, l'odore delle candele, la lieve luce della luna che si intrufola dal vetro sporco.
Domani si scalerà, ma la salita alla montagna parte da qui, da questa quiete, da questo riposo che mi fa star bene. Si chiacchiera tranquillamente, senza la fretta di dirsi qualcosa. Si sta insieme seduti calmi, come fosse casa nostra da sempre. E forse è così.

Quiete, beatitudine.
Il cuore che lentamente batte nel petto, la presenza dell'amico a qualche metro di distanza; eppure non ci si dice niente, non ce n'è bisogno.
Ognuno coi propri pensieri, ognuno con la propria beatitudine, ma si è una cordata anche qui, soprattutto adesso su questa cima. Sotto al sedere la roccia dura, il sedile più comodo al mondo. Attorno a noi la bellezza che si fa immensa a perdita d'occhio; ora che è nostra è così famigliare che appare ancora più bella.
Riguardo il profilo dello sperone appena scalato, quello spigolo frastagliato e sottile di roccia ruvida. Fino a poco tempo prima eravamo lì, mettendoci alla prova, danzando sulla verticalità della montagna, sentendoci liberi. Assaporando passaggio dopo passaggio quella libertà che ora trova compimento in questa quiete. Sono felice.

Beatitudine, compimento.
Il Perù è lontanissimo, ma ora che sono sdraiato in questa tenda non importa: sono a casa lo stesso.
Sono partito in piena notte verso l'ignoto e il buio non ha fatto che peggiorare la situazione. Quella montagna gigantesca che incombeva su di me, la fatica schiacciante dell'alta quota e l'immensità dei ghiacci andini. Tutto nella notte era ignoto e la speranza, il lavoro di mesi, lottava con l'imprevisto e la possibilità di fallire.
Ma ora la cima è qui, in questo cuore sdraiato nella tenda.
Il sacco a pelo aperto sul mio corpo, abbandonato sul materassino di gomma. Chiudo gli occhi respirando profondamente, fuori il silenzio amato e la percezione della montagna ormai conosciuta.
Il riposo, la quiete, la beatitudine: il compimento di un sogno.
Essere in pace con me stesso, è questa la più grande conquista che mi ha dato la montagna: la possibilità di chiudere gli occhi e avere un attimo di purissima serenità. E un grazie.

mercoledì 4 ottobre 2017

Maledetta Speranza (il Duca)

Chiuso qui, in questa stanza, con tutte le preoccupazioni che bussano nel cervello; con lo schifo di un'umanità che appassisce sempre di più. Non leggo libri di sociologia, ma guardo quello che tocco tutti i giorni: ragazzi vuoti, riempiti solo da droga e bugie. Speranze mai neppure nate, spiriti tumefatti in una libertà che è pura schiavitù, rinchiusi in una realtà che non è reale.
Non sono promesse tradite, solo miti dannosi. Non sono né ribelli né rivoluzionari, né schierati né fanatici. Non sono nulla, solo zombie che pensano di essere qualcuno, senza neppure crederci troppo.
Lo stato non esiste, è solo il paracadute del peggio: senza storia, né memoria, né prospettiva. Hanno ucciso il popolo in nome della libertà: il sistema ha vinto in modo assoluto, su tutto il fronte!
Cosa posso fare? Come posso muovermi?
Tutto è assorbito in quel pantano in cui nulla si muove; tutti sono convinti di correre, ma sono immobili, fermi come cadaveri. Se si muovono è perché affondando, schiacciati dal peso di cose, risposte imposte ad un bisogno che non è domanda, non è desiderio. E' solo il trucco del sistema per riempire il buco.
Che fare?
La tristezza è dipinta sul mio viso, il cuore è pesante, gonfio di questo nulla a cui non vuole arrendersi.
Perché non vuole arrendersi? Che cosa gli chiede di resistere? Che cazzo gli impone di resistere?!

La bellezza, la bellezza conosciuta. La bellezza che ho conosciuto. L'altra libertà, quella che si fonde con una realtà immensamente più grande di me: che apre al desiderio, non lo tappa.

Maledetta speranza, maledetta perché non ti permette di accontentarti di quello che scorre fra le dita. Lei vuole altro, lei non si abbandona alla disperazione di un desiderio troppo grande, lei spera ancora di poterlo perseguire. Come il piccolo uomo sulla grande parete, come la bellezza che ho avuto il privilegio di vivere. Di vivere veramente.

martedì 28 marzo 2017

Quella strana certezza (il Duca)

L'ombra della sera si sta ormai impossessando della montagna. Noi siamo lì in equilibrio, come scialuppe in mezzo all'oceano.
Buttiamo un'altra doppia nel vuoto, nelle viscere di quel canale che non sappiamo dove porta. Mi calo lentamente lasciandomi afferrare dal freddo che incombe; gli sguardi dei miei amici mi seguono dall'alto.
Sparisco nell'imbuto di roccia, con i ramponi che mordono il ghiaccio sotto alla neve dura.
I miei occhi cercano, totalmente assorti da quell'azione. Non mi domando niente, semplicemente cerco nella montagna una risposta, mentre le corde si stendono lungo la parete senza fine.
Un altro salto verticale, un altro camino di ghiaccio, con la speranza che le corde bastino ad arrivare fino in fondo. Poi finalmente eccoli, i capi spenti nel cuore della parete, non ancora in salvo. Arrivo con calma al loro termine e mi blocco col prusik.
Mi guardo attorno, ho bisogno di una soluzione; non sono disperato, semplicemente devo trovare una soluzione perché da qualche parte certamente c'è. E' una strana sicurezza, fondata nell'amore per la montagna, per quella realtà che non mi ha mai tradito.
Con un leggero dondolio mi spingo sul lato del budello in cui sono appeso. Afferro una lama di roccia, ci provo, eccolo: questo sperone di pietra è la mia soluzione! Faccio passare una fettuccia a cui mi assicuro, poi lancio una voce ai miei amici, che è tutto a posto, che possono calarsi.
Un'ora dopo le nostre lampade viaggiano nella notte della valle. La strada è ancora lunga prima di potersi riposare, lo sappiamo tutti e tre. Fa freddo, abbiamo fame, sete, siamo stanchi. Siamo felici.

Come può accadere questo, come può essere possibile e credibile? Tutte quelle ore aggrappati a quella montagna, a quel monolite verticale di neve, roccia e ghiaccio. Col vento, l'incertezza, la bellezza assoluta e le nostre capacità messe alla prova. Sono in quei momenti che ti convinci di non poterti permettere niente di meno, nulla di meno che l'assoluto. Siamo cittadini di quella realtà, ne facciamo indissolubilmente parte. Ovunque saremo sarà così, questa è la nostra certezza. La nostra appartenenza.

venerdì 2 dicembre 2016

Il miracolo di granito (il Duca)

Arrivo sudato marcio al rifugio e mi siedo sulla panchina di pietra. Le nubi grigie avvolgono le montagne: non si vedono ma so che sono là, si innalzano dritte e immense con le loro pareti di granito.
Ordino una birra e mi metto a sorseggiarla. Provo a rilassarmi respirando quest'ultimo sole, ma la preoccupazione c'è e continua a rimanere annidata nel mio animo. Ho addosso il peso di una settimana difficile e fastidiosa, ho addosso l'incognito inquietante di domani mattina: quell'enorme cattedrale ammirata infinite volte, quella roccia che come un incantesimo mi riempie la testa.
Avrei bisogno di tranquillità, di buttare fuori i cattivi pensieri. Ma sono qui per qualcos'altro, non per svuotarmi, ma per riempirmi, per portare dentro di me qualcosa che è lassù.
Come sarà domani? Percorro con la mente i diversi passaggi che ho letto mille volte sulle relazioni, li penso e provo a figurarmeli. Spero che il meteo sia davvero buono: “devo essere fuori dalla parete prima che salgano i nuvoloni”.
Le incognite sono mille, avrei bisogno di rilassarmi dopo la brutta settimana appena trascorsa; eppure sono qui. Sono qui come se me l'avesse imposto il destino.
Non riesco a pensare a come potrebbe essere dopo, dopo la scalata. Non riesco a immaginare come possa essere sbucare in cima, finalmente. La vetta la percepisco come qualcosa di indefinito, che potrebbe anche non esistere: per ora è solo un ideale a cui aspiro da anni. E ora sono qui, sono proprio qui sotto, come Ulisse in prossimità delle Colonne d'Ercole.

La notte dormo bene. La melma della settimana non può sopravvivere all'ombra delle stelle, in questa valle di severa bellezza.
Mi siedo a fare colazione sullo stesso tavolo dove ho cenato, ma le parole, le risate e i brindisi della sera prima sono scomparsi. Ora sono concentrato, non penso più alla via, alla relazione, alla montagna, ho come raggiunto l'equilibrio che cercavo. Mangio tranquillo, poi sistemo lo zaino e esco sulla veranda. Davanti a me si alza incredibilmente bello il Badile, lo conosco bene, sembriamo fatti uno per l'altro.
Allaccio gli scarponi e parto: scavalco il muretto della veranda e mi sento una nave che lascia il porto per il mare aperto.
Risalgo la morena senza pensieri, semplicemente puntando al torrione da dove parte la via. Lo raggiungo salendo a zig zag e lancio un'occhiata verso l'alto. I movimenti sono automatici: mi tengo salda la mia concentrazione, mentre infilo l'imbrago e allaccio il caschetto. Faccio scattare i pochi moschettoni, ognuno al suo posto, e attacco.

C'è una magia che è impossibile da spiegare. L'ho provata tante volte, eppure quando ci ripenso mi stupisce sempre. Si crea una sintonia commovente con la montagna, l'incognito che prima spaventa diventa famigliare e si fonde con la volontà. L'ho sentita sui pendii di misto del Monviso e nel canale di neve del Foppa, con le slavine che mi passavano sopra alla testa. L'ho sentita nell'assalto al Chapaeva, nel lontano Tien Shan, come nel cuore del Mengol. L'ho sentita sulle creste delle Orobie come nel ghiaccio del Brenta. E' una magia che ti prende nella tua totalità, in ogni movimento del corpo e nella dinamicità della tua anima, e ti getta nel cuore pulsante del mondo fondendoti con esso.

Come correndo verso casa sono arrivato all'obelisco della cima e mi sono seduto sulla roccia scaldata dal sole. Attorno a me la bellezza delle montagne, ma non è uno spettacolo; è semplicemente quello che c'è, come se tutta quella bellezza fosse normale. E io non sono lo spettatore, ma un figlio di quelle montagne a cui la Bellezza ha ancora una volta concesso un miracolo.

giovedì 27 ottobre 2016

Sensazioni (il Duca)

A volte è proprio difficile capirci, guardando la cosa dall'esterno direi che siamo proprio dei cretini.

Giornata schifosa, pomeriggio ad un convegno che non sa di niente, torno a casa che piove. Nella casella della posta trovo l'ennesima multa, una schifosissima bolletta e una lettera che mi ricorda che mi scade la revisione. Faccio da mangiare e mi cade il guscio sporco dell'uovo nel sugo, l'acqua per lavare i piatti è fredda, il vino è diventato aceto. Guardo la muffa nella doccia, dannata! Ed è pure finita l'ammoniaca.
Eppure mentre scrivo tutto questo ho una dannata frenesia che mi fa tremare e sorridere come un demente. 
Lo so benissimo cos'è: è quella telefonata che ho appena riattaccato; è la telefonata che mi conferma che sabato si va. 
Prenderemo un sacco di freddo nella nostra tenda, scomodi e lontani da qualsiasi carezza femminile. Ci accontenteremo di un tea tiepido, mentre la paura ci farà sudare e gli scarponi sembreranno pezzi di ghiaccio.
L'appuntamento è con quella via che ci è rimasta impressa nella testa, pezzo dopo pezzo. Ciò che ci chiama è la stessa parete che spiamo dai nostri PC, dall'ufficio, quando la vita quotidiana ci concede una manciata di secondi.
La prima volta si è difesa dietro al vento caldo. La seconda volta ci ha quasi ammazzati, lasciandoci in vita solo per averla ancora e sempre davanti agli occhi, come un sogno nascosto.
Che cosa vuole da noi quella parete, quel groviglio di ghiaccio e roccia? Fianco di una montagna salita infinite volte, appena conosciuta da chi frequenta la valle e poco più. Che cosa continua ad attrarci, come se l'averci graziato le desse il diritto di farci ancora sognare? Come se fossimo destinati a tornare ancora da lei.
Che cosa vuole da noi quella montagna, quella cima, quella via, da renderci felici al solo pensiero di essere ancora lì: conficcati nel suo cuore pulsante, legati ancora insieme?

Eppure ho letto molto, molti alpinisti, molti intellettuali della montagna. Ma mentre scrivo qui, buttando semplicemente giù quello che mi accade, sento che quello che ho letto non vuole dire niente, nulla! Come è misterioso questo fatto, questa bellezza che si nasconde in un solco selvaggio e spietato. Certamente domani, quando sarò tra i miei studenti, tra mille problemi che nulla hanno a che fare con questo, avrò una strana luce da mostrare loro. La mia stupida voglia di vivere un sogno che fa sudare, con l'obbiettivo ben saldo nel cuore e tutta la mia volontà di raggiungerlo. Il dono di una bellezza ostinata che ti chiama inesorabile, come il richiamo del proprio destino!

mercoledì 31 agosto 2016

Parlare di filosofia con Dio (il Duca)

Maledetto, costretto da quell'irrefrenabile desiderio di bellezza, libertà, cielo sopra alla testa.
Arde il fuoco, brucia, brucia il cuore, senza fine, brucia e arde in petto. C'è qualcosa che non va mentre solco la strada, mentre guardo la gente attorno a me e cerco di capire cosa gli passa per la testa. C'è qualcosa che non va nei negozi che costeggiano la via, c'è qualcosa che faccio fatica a capire nelle storie che mi circondano.
Ci si sente come la trota che prova a risalire il fiume, mentre tutto passa, tutto corre così stupidamente veloce da sembrare sempre uguale.
Cosa hanno di maledettamente essenziale le pareti di granito, quello slancio verticale verso il cielo? Ho nostalgia del silenzio, in ogni istante, sempre. Del silenzio che abbraccia lo scrosciare del torrente, il danzare del vento, il cuore che lentamente batte. Ho nostalgia della mattina, quando ci si affaccia dalla tenda col sole che dipinge i profili delle montagne e la voglia esplosiva di vivere. Mi manca casa mia, il fornellino che sibila in compagnia di Ciccio; la soddisfazione di sdraiarsi sul prato dopo la cima.

Un vecchio siede di fianco a una ragazzina, su di una panchina davanti al centro commerciale. Lei ascolta la musica muovendo le gambe nude sotto alla gonna nera, lui la guarda silenzioso. C'è una tristezza infinita in quello sguardo, la malinconia di chi si domanda dove è finita la sua vita. E c'è una tristezza infinita in quella ragazza che scorre le dita sul suo cellulare, cercando freneticamente qualcosa che non può trovare.

Si parla sempre di cose stupide. Più si ride, più si parla di cose stupide. Non riesco più a dire cose che mi interessano, se non molto raramente. Si viene sempre soffocati dalla sensazione che chi ti ascolta ha trovato giusto un momento per farlo, in attesa di dire poi la sua. Ma quel momento a me non interessa, per niente. E non mi interessa neppure se devi rispondere a qualcun altro, che è da qualche altra parte. Io voglio tutto: l'infinito, l'immortalità di un'idea, la grandezza dell'assoluto. Voglio parlare di filosofia con Dio. Non arretrerò davanti a questo (al massimo tacerò o mi difenderò assecondando la stupidità).

C'era una volta un gruppo di amici, cacciatori dell'inutile. Sedevano in un chiostro di colonne spezzate e discutevano. Tra loro c'erano personaggi illustri: Heidegger, Platone, Nietzsche, Husserl, Derrida. A volte veniva persino Hegel. Si tendeva così intensamente all'Ideale che a momenti pareva quasi di scorgerlo, bellissimo e luminoso in quelle pareti di mattoni. E' stato il periodo più bello della mia vita, che continuava in qualche appartamento tra litigate e punti-di-incontro. E poi è quasi sembrato che quella discussione potesse scoppiare in una rivoluzione, in assemblee e poesie recitate in piazza.
Ma tutto è passato, gli amici hanno preso altre strade, ognuno la propria; e se anche ci si incontra non sarà più uguale, mai più.

La vite entra nel ghiaccio della grande parete. Guardo in basso, oltre le punte dei miei ramponi scorgo Lallo, chinato sulle sue piccozze. Tra noi la corda rosa che passa nel rinvio, in alto l'ultimo scivolo di neve che sorregge la cima. Non bisogna chiedere permesso, lei è li che aspetta solo noi, biancheggiando luminosa e bellissima. Non bisogna chiedere il permesso perché è lei a chiamarci, invitandoci a salire; lei che è semplicemente lì nella sua eternità infinita.
Non c'è rabbia, non c'è incomprensione, ma solo il coraggio di seguire il proprio desiderio: il coraggio di tornare a casa, a parlare ancora una volta di filosofia con Dio.
Ecco, io ho bisogno di questo coraggio, sempre, tutti i giorni. Finché respiro. Il coraggio di tornare verso casa, di non piegarsi al richiamo del nulla.