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mercoledì 12 maggio 2021

Grandes Jorasses (il Duca)

Grandes Jorasses, anche solo il nome risuona di mito e leggenda.

Da anni quel nome gira sulle nostre bocche, ma non l'abbiamo mai messa davvero in programma. Troppo difficile azzeccare le giuste condizioni, anche solo per la via normale, per quella che è considerata una delle vie normali più impegnative di tutte le Alpi.

Poi un giorno Lallo mi scrive: “secondo me potrebbe essere la volta buona...” io non esito un istante. Chiamiamo, prenotiamo e si parte.

Seduti su una panchinetta di legno mangiamo i nostri panini al riparo di un larice, mentre la pioggia riempie la Val Ferret. C'è qualche dubbio, ma più forte di tutto c'è la voglia di farcela, ora che siamo qui, ora che abbiamo davvero osato bussare alle porte della grande montagna.

Saliamo verso il Boccalatte e lentamente il velo di pioggia si apre lasciando spazio ad un timido sole. Al rifugio ci troviamo come a casa, davvero. Franco è molto più di un mito, è un rifugista autentico, di quelli che solitamente trovi nelle valli più nascoste e selvagge. Raccogliamo qualche consiglio, un sacco di belle storie e del sano riposo, poi all'una di notte partiamo.

La salita della Grandes Jorasses è impossibile da assaporare, non è una prelibatezza, ma un'abbuffata da fare col fiato sospeso. Camminiamo nel buio totale, seguendo la labile traccia che sale a zig zag per il ghiacciaio, solo a tratti ci accorgiamo degli enormi crepacci che stiamo aggirando.

Raggiunte le rocce Reposoir, dopo il primo tiro di misto, ci togliamo i ramponi e iniziamo la risalita in conserva protetta. A poco a poco i nostri occhi si abituano a cercare nel buio della notte i giusti appigli, guidati dalla debole luce delle nostre frontali. Saliamo bene, ottimamente coordinati: io metto i friend, Lallo li toglie e via, così, verso l'alto.

Giungiamo sulla cima dello sperone che il giorno inizia ad illuminare il mondo attorno a noi: una cascata di seracchi ci divide dal pilone roccioso che scende dalla Whymper. Guardiamo questo universo glaciale immaginando un possibile passaggio: tutto è ancora in penombra, tutto qui è incredibilmente inospitale e allo stesso tempo terribilmente affascinante.

Ripartiamo con estrema cautela, facendo il lungo traverso con il fiato sospeso. Dove il ghiaccio è più insidioso proteggo con una vite, passando poi a metà tra la placca di granito e la lama di neve crostosa. Cerco di trovare nella mia testa tutta la leggerezza possibile da trasmettere al mio corpo. Giungo così alla base delle Rochers Whymper, dove riesco ad attrezzare una buona sosta per recuperare Lallo.

Ora è tempo di tornare ad arrampicare su roccia. Saliamo bene, fino ad affacciarci ancora una volta su di un mondo nuovo: siamo al cospetto del famoso gigantesco seracco pensile, la massa di ghiaccio che regna sovrana tra le due punte principali delle Jorasses.

Ci guardiamo attorno e non abbiamo dubbi sul da farsi: tenteremo di scalare il couloir che sale tra il seracco e le Rochers Whymper, come suggeritoci da Franco.

Iniziamo così la nostra ascesa verso la vetta, l'ultimo capitolo verticale di un viaggio che sembra un mosaico di scalate diverse. Più una saga che un saggio.

Quest'ultimo tratto, inserito nella sezione più pericolosa e fatale dell'intera montagna, è avvolto da un incanto sublime. Ai colpi delle nostre piccozze fa eco il gorgoglio dell'immenso seracco, che alla nostra destra si muove continuamente come un mostro alieno.

Superati una serie di crepaccetti orizzontali e ben nascosti dalla neve, finalmente sbuchiamo in cresta. Davanti a noi, oltre l'enorme cornice che fa da balconata al filo, precipita con una verticalità spaventosa la famosa parete nord, che sembra non finire mai.

Con l'estrema cautela che oggi non dobbiamo mai abbandonare, seguiamo l'affilata cresta fino a toccare la cima della Punta Whymper. Siamo immensamente felici, emozionati lì in piedi sulla vetta, mentre sotto di noi si dispiega il mondo intero. Non osiamo però rilassarci nemmeno per un istante, non ci consideriamo assolutamente arrivati.

Dopo aver scattato qualche foto, come due equilibristi legati alla medesima corda ci muoviamo sul filo di cresta verso la punta Walker. Superiamo qualche saltino di misto, con la vertigine della Parete Nord che non smette mai di richiamarci. Giunti alla sella tra le due cime la dorsale si allarga notevolmente e camminando senza più difficoltà raggiungiamo la vetta più alta delle Jorasses.

Ora sentiamo che ce l'abbiamo fatta per davvero: il regno del Bianco col suo re è tutto attorno a noi, ma più che il paesaggio è la percezione di essere sulla testa di questa montagna mitica che ci riempie il cuore. Non siamo qui come due spettatori, ma come i privilegiati viandanti a cui è stato concesso di inoltrarsi nelle profondità di una terra sacra.

Dopo esserci goduti la vetta in un clima perfetto ed accogliente, iniziamo a malincuore la discesa per la via normale. Vaghiamo per nevai scaldati dal sole e rocce instabili che ci impegnano più di quanto ci aspettavamo. Alla fine giungiamo al ghiacciaio sotto al grande seracco, che attraversiamo a passo spedito. Raggiunte nuovamente le Rochers Whymper ripercorriamo a ritroso la nostra via tornando al Boccalatte e poi a valle.

Qualche ora dopo ci troviamo all'autogrill di Novate a mangiare Hamburger. Attorno a noi diverse famiglie, coppiette, gruppetti di amici e gente sola. Dentro di noi il dono di una montagna immensa e leggendaria che nessuno ci potrà mai togliere: la Grandes Jorasses!

lunedì 9 novembre 2020

La Grande Parete dei Palù (il Duca)

Scendiamo dalla funivia carichi all'inverosimile. Ci sentiamo quasi fuori luogo davanti ad alpinisti e turisti ben ordinati nel loro vestiario; il loro format è perfettamente appropriato, la loro tenuta, il loro bagaglio, il portamento è esattamente conforme al lusso d'alta quota del posto in cui ci troviamo: il Diavolezza.
Noi ci muoviamo ciondolanti e goffi; abbiamo zaini, borsoni, sacchetti di plastica squarciati che dobbiamo tenere accartocciati per non perdere la roba che dentro ristagna in ordine sparso. 
Strisciando lungo la morena ci allontaniamo, quasi fossimo due ladri. Ci abbassiamo verso una bella piazzola circondata da un muretto a secco, da noi scorta nella pietraia a picco sul ghiacciaio sottostante. Qui montiamo la nostra tenda, sotto lo sguardo incuriosito degli ospiti dell'albergo-rifugio, che con discrezione si lasciano distrarre dalle nostre manovre. 
Ci sistemiamo, spargiamo le nostre cose tra pietre e residui di nevai e pian piano diventiamo gli abitanti della valle. Proprio così iniziamo a sentirci, ritrovando sempre più concretamente quell'appartenenza che sembrava avessimo tenuto da parte in attesa di ritrovarci qui. 
Il nostro piccolo accampamento è pronto, apriamo le birre e le patatine che ci siamo portati, come in un rito già predisposto. Adesso, con calma, possiamo dedicarci al nostro compito di oggi: studiare l'oggetto che ci ha mossi fin qui, ammirare il re assoluto di questo luogo, prepararci per l'incontro con quella parete che ci attende da anni: la Nord del Piz Palù. 

Tutto sembra portare in direzione di quella cattedrale scintillante, sorretta dai suoi tre speroni di roccia nera. I suoi seracchi bianchi precipitano verticali, accatastati uno sull'altro, baciati dal sole di inizio luglio che li fa brillare, che li rende abbaglianti. 
Non importa per quale motivo ti trovi al Diavolezza, non importa in che veste, con quali aspettative e con quali progetti. Se sei lì non puoi che guardare a quella montagna e alla sua parete. Lo fa il turista giapponese che scatta foto con il suo enorme teleobiettivo, lo fa la ragazza ben vestita che la osserva con un iniziale scarso interesse, ma che non riesce a toglierle gli occhi di dosso, senza forse neppure sapere che cosa sia. Lo fa il cameriere che lavora al rifugio, che invece la conosce bene e che la guarda fumando intensamente, gettandole addosso tutti i pensieri che gli riempiono il cervello. 
E poi la guardiamo noi, cercando in quella parete la via che abbiamo studiato, che siamo venuti a scalare. Speriamo di riconoscere un segno, di trovare un qualche conforto in quell'enorme tempio la cui realtà (sappiamo bene) sarà sempre altro da quanto ammirato in foto. E' questo un momento intensissimo, lo spazio temporale in cui si cerca di trasporre l'idea, il progetto, nella concretezza di qualcosa che è immensamente altro da te. Qualcosa che però sembra custodire un segreto che è anche il tuo, misteriosamente, fatalmente, intimamente. Una bellezza infinita che ti chiama inesorabilmente. 

E' ancora piena notte quando lasciamo la tenda, ma il buio è riempito dalla luce intensa della luna, che argentata rende tutto fatato e spettrale. 
Le condizioni sono ottime, ma come sempre l'avvicinamento sembra interminabile. Incontriamo qualche rara persona lungo il nostro cammino: una coppia si accinge a sciogliere la neve fuori dalla propria tendina, qualche alpinista sale lentamente per la via normale, una cordata attacca la Kuffner. Noi soli proseguiamo per la sezione più lontana, selvaggia e solitaria della parete: lo sperone Zippert. 
Camminiamo silenziosi, avvolti nell'immensità del ghiacciaio che inizia a tingersi dei colori del mattino; sopra di noi la montagna si innalza spaventosa. Superati i resti di alcuni enormi seracchi crollati, iniziamo a risalire il cono nevoso che fa da trampolino alla nostra via. 
Ci fermiamo a studiare la situazione, lì in piedi sotto alla nostra linea, davanti alla porta del nostro cammino. Ci leghiamo quasi tremolanti, con reverenziale timore. 
Ale fissa la sua piccozza nella superficie dura del manto nevoso, mentre io inizio a strisciare lungo la grossa cornice che fa da ponte sulla crepaccia terminale. Con un passo delicato ma deciso pianto il rampone nel fianco del seracco, ficco le picche al di là della voragine e passo, iniziando a salire verticale verso l'alto. 
E' l'inizio di un viaggio immenso, di una danza estenuante, di una scalata che dura come una vita intera. 
Percorso il lungo couloir tra neve ottima, salti di misto marcio e piccole cascatelle di ghiaccio spaccoso, ci inoltriamo nella sezione più maledetta della parete. Arrampichiamo su roccia coperta da una spanna di neve pesante, dove ogni metro va guadagnato precariamente, grattando i ramponi alla disperata ricerca di un appoggio. Saliamo in diagonale, piazzando qualche rara protezione dal valore prevalentemente psicologico, fino a trovare un passaggio nella grande muraglia verticale che ci sovrasta. 
Avanziamo con alcuni tiri di misto, sempre delicati, sperando di poter finalmente raggiungere l'ultima parte dello sperone, che la nostra relazione descrive come una ripida lama di neve di 300 metri. 
Quando però con un ultimo tiro incerto esco da un camino di roccia marcia, bucando la cornice che fa da tappo al filo dello spigolo, inizio a temere che le rogne non siano ancora finite. Al posto di un'uniforme rampa nevosa, mi trovo infatti davanti una maledettissima processione di merli e contrafforti rocciosi, misti a neve per nulla sicura. 
Non c'è niente da fare, è la montagna a condurre il ballo e tocca a noi adeguarci: d'altronde è questa l'essenza dell'alpinismo. 
Con i nervi sempre più a fil di pelle avanziamo in conserva protetta. A destra la neve è dura, ma il pendio è verticale e non sempre è agevole passare, a sinistra la neve è invece marcia e insidiosa e si stacca in sibilanti slavine ogni volta che proviamo a piazzare un appoggio. In mezzo passiamo noi, superando uno dietro l'altro i salti rocciosi che ci fanno dannare. Ormai sono troppe ore che siamo dentro a questa infernale parete. 
Raggiunta una selletta nevosa decretiamo che non è più il caso di continuare su questo terreno che ci sta rendendo troppo lenti. Così decidiamo di fare quello che ieri ci eravamo promessi di non fare: buttarci sullo scivolo nord est, pericoloso per le valanghe, ma teoricamente più rapido. 
Con un delicato traverso ci portiamo così in piena parete, ma le speranze di una progressione veloce vanno ancora una volta a farsi benedire; mi trovo infatti a tracciare nella neve fradicia che arriva a mezza coscia. Sono esausto, sempre più frequentemente devo appoggiarmi alle picche per rifiatare. Ale mi incita, si propone anche di passare davanti lui, ma sono ormai troppo posseduto da questa parete per poter cedere anche solo un pizzico di questa massacrante sublimità. 
Come se non bastasse le cose iniziano anche a complicarsi, perché più saliamo più ci troviamo ad intersecare colate di ghiaccio vivo e duro come pietra. Sembra un paradosso, io continuo a borbottare, a imprecare passando dall'affondare come fossi nelle sabbie mobili, a piantare viti da ghiaccio come fossimo su una cascata in pieno inverno. Sembra che ogni legge fisica qui non valga, qui vale solo la montagna e le nostre strane idee che ci hanno portato ad infilarci su di qua. 
Più in alto, ormai allo stremo, decidiamo di piegare ancora una volta andando a riprendere il filo dello sperone. La vetta è una cinquantina di metri sopra di noi, ma sembra non arrivare mai. Noi affrontiamo un torrione dopo l'altro, con affanno, senza poterci permettere di perdere neppure per un istante la concentrazione. Continuiamo a ripetercelo: “attenzione, attenzione”. 
Quando con un ultimo passo sbuco oltre l'ultimo salto di misto e vedo solamente una lama di neve compatta tra me e la fine della parete, non riesco a crederci e sento nel cuore un'emozione immensa. Chiamo Ale, grido, mentre lui è impegnato sull'ennesimo passaggio delicato, poi avanzo godendomi quegli ultimi passi come fossero la cosa più bella del mondo, ed in fine, finalmente, eccomi in cima! 
E' strano, è come se improvvisamente mi accorgessi che c'è la luce, che la neve è bianca e il cielo è azzurro. Ale mi raggiunge, ci sediamo a mangiare qualcosina facendo fatica a trovare parole da dire, ma non serve. Qualche cordata ci passa vicino, stanno facendo la traversata delle creste e si complimentano con noi, guardando un po' increduli le nostre tracce che precipitano giù nell'abisso inghiottite dalla parete. 
Iniziamo la discesa il cui primo tratto è in realtà una cavalcata in cresta che ci porta a toccare le tre cime del Palù. Poi giù, giù lungo gli ampi tornanti che aggirano i grandi crepacci. Quando giungiamo finalmente alla nostra tenda siamo dei cadaveri ambulanti: stanchi morti, bruciati dal sole, spossati, quasi fatichiamo ad articolare frasi di senso compiuto. Beviamo tutto quello che abbiamo lasciato al campo: acqua, birra, vino. Poi riguardiamo quella parete, ora che abbiamo recuperato almeno la forza che ci permette di poterlo fare, di poter constatare ancora una volta la bellezza immensa di quel mondo gigantesco.

martedì 2 luglio 2019

Monte Gruf - Nuova Via (il Duca)


Via molto logica da noi inventata sul versante nord del Monte Gruf. 
La linea segue l’estetico sperone a destra del canalone della Valle Piotta (meglio conosciuto come “Canalone dell’Aurosina”), sbucando ad una spalla (2830m ca) tra la bocchetta di Val Piana e la cima del Gruf. 
Dopo un primo sopralluogo effettuato a settembre, abbiamo deciso di bivaccare direttamente ai piedi dello sperone. L’avvicinamento è lungo e da cercare: lasciata l’auto a Pian Cantone (termine della strada), si imbocca il sentiero per Tabiadascio. Raggiunto l’alpeggio, si prosegue seguendo le indicazioni per il bivacco Garzonedo. 
Dove il sentiero piega decisamente ad ovest, lo si abbandona, attraversando senza traccia il greto del torrente. Ci si dirige così verso la profonda faglia sovrastata dal canalone dell’Aurosina. 
All’imbocco della faglia, sulla destra, ci sono delle staffe nella roccia, che consentono di guadagnare una traccia quasi del tutto cancellata. Seguendo la traccia, prima nel bosco, poi tra rododendri e mughi, si raggiunge la conca morenica tra il Gruf e il Sasso Becché, passando prima dall’alpe Penz. 
Sulla morena non ci sono tracciati, ma si vede già bene l’evidente sperone su cui si sviluppa la via. 

RELAZIONE: 
L’attacco è nei pressi di un diedro appena a sinistra della propaggine più bassa dello sperone. Qui noi abbiamo effettuato 4 tiri: 
L1: Si risale il diedro verticale ma ben appigliato, per poi proseguire su placche appoggiate fino all’imbocco di un canale obliquo. Sosta su spuntone. 
L2: Si segue l’evidente canale, con roccia non sempre buona, fino al suo termine. Sosta su friend. 
L3: Si punta al filo dello spigolo, risalendo le placche a tratti strapiombanti, seguendo una linea che piega leggermente a sinistra. Sosta appesa su spuntone, appena sotto ad un ultimo muretto verticale. 
L4: Superato il muretto con un passo lungo, si segue una provvidenziale cengia, che piegando a destra consente di guadagnare la sommità dello sperone. 
Si prosegue in conserva protetta, cercando di rimanere il più possibile sul filo dello spigolo, dove la roccia è solida e bella. Da qui in poi si riesce a proteggere molto bene con friend e cordini. A tratti l’arrampicata è molto esposta, fare sempre attenzione alla tenuta di appigli e appoggi. 
Lungo la cavalcata in cresta si incrociano diversi torrioni. Conviene sempre scavalcarli direttamente, effettuando eventualmente qualche tiro. L’unico torrione che abbiamo aggirato è l’ultimo, che si riconosce perché è preceduto da una profonda spaccatura. Qui siamo scesi delicatamente sulla destra, per poi risalire un diedro erboso obliquo e riguadagnare il filo dello spigolo con un tiro verticale su roccia ottima. 
Dopo l’ultimo torrione si sale decisamente, con percorso sempre logico lungo lo spigolo, spesso agevolato da comode cenge appena a sinistra del filo. Si arriva così a sbucare sulla cresta sommitale, che si percorre su blocchi rocciosi fino all’omino di vetta (dall’attacco alla cima ci abbiamo impiegato 6 ore). 

DISCESA: 
Scendendo a sud lungo la pietraia si guadagna una larga cengia, attraversata da qualche nevaio, che consente di raggiungere la bocchetta di Val Piana. Da qui si scende lungo il canalone dell’Aurosina, che dopo i primi metri molto ripidi si assesta sui 45 gradi, permettendo di scendere bene fino alla base della parete del Gruf. 

NOTA: 
Non ci sono relazioni della salita di questo sperone, da noi battezzato SPIGOLO DELL'ORSO. Dunque, con tutta probabilità, si tratta di una via nuova aperta da me e da Ale.

FOTO:







mercoledì 10 aprile 2019

Nery Cresta Sud: prima invernale (il Duca)

La prima volta che gli abbiamo messo gli occhi addosso è stato in un caldo gennaio, durante una scalata invernale nel biellese. L'imponente piramide si innalzava davanti a noi, bella ed elegante, con le sue rocce nere miste alla neve bianchissima. Un uomo ce ne svelò il nome: “quello è il Mont Nery!”.
A fine inverno partimmo per salirlo, con un'idea alternativa; ma la mancanza del sentiero ci fece arenare nel bosco. Io non ci tornai più per diversi anni, mentre per Ale divenne una vera e propria ossessione. Lo tentò molte volte, dando sfogo alla sua fantasia, sempre alla ricerca di una soluzione originale per raggiungerne la cima.
Alla fine lo scalò dal canale nord-ovest, ma scendendo fu attratto da uno sperone logico e selvaggio che dalla cima precipita a sud verso il bivacco Cravetto.
Si informò e scoprì che si trattava della Cresta Sud, via dimenticata e quasi mai ripetuta: l'obbiettivo perfetto per le sue fantasie esplorative! Condivise la scoperta con Mario, che lo attendeva al bivacco, il quale me ne parlò entusiasta. Sapeva il potere seduttivo che una tale idea avrebbe esercitato su di me, e ci azzeccò!
Iniziammo a mettere a fuoco l'obbiettivo, studiando le foto fatte da Ale e quelle poche trovate in internet. A guardare bene più che una cresta la via percorre uno sperone vero e proprio, che parte verticale al centro della parete, per poi continuare con una serie di torrioni fino alla cresta sommitale. Alla fine ci esaltammo e rilanciammo ulteriormente: “proviamola, ma proviamola in pieno inverno!”.
Non c'erano testimonianze della Cresta Sud salita nella stagione più fredda, quindi, con tutta probabilità, la nostra sarebbe stata la prima invernale: la prospettiva era davvero ghiotta!
Mario si sfilò dall'idea, pur continuando a sostenerci. Io e Ale la inserimmo invece in cima alla nostra affollata lista dei sogni.

Gennaio, fa freddo e non nevica da un po': decidiamo che si può provare. Qualche giorno prima scaliamo la cresta di Canabà sul monte Cresto, per farci un'idea delle condizioni. Poi partiamo, seppure con qualche dubbio.
Si fa colazione scherzando al bar, circondati dagli sciatori diretti a Gressoney. Poi si abbandonano le terre degli uomini per salire verso il selvaggio regno del Nery. Superiamo i 1500 metri di dislivello per raggiungere il bivacco, trovando neve continua dai 1800m in su. Ma arrivati nei pressi del Cravetto scopriamo che il meritato riposo va ancora guadagnato: il bivacco è infatti completamente sommerso dalla neve, esclusa una piccola porzione di tetto (col pannello solare).
Iniziamo a scavare, prima per liberare la struttura principale, poi per entrare nella legnaia da dove azionare la bombola del gas.
Alla fine riusciamo a sistemarci bene nel bivacco, ma dobbiamo rinunciare al giro di perlustrazione sotto allo sperone. Poco male, una cena calda e lo scoppiettio della stufa ci fanno sentire bene come pascià.

Ci svegliamo che è buio pesto, prepariamo la colazione, siamo concentrati; abbiamo dormito bene e facciamo tutto con calma. Quando usciamo dal bivacco ci accoglie il freddo intenso dell'inverno, accentuato dal vento che seppur leggero è penetrante.
Il nostro sperone è già illuminato da un sole poco intenso che gli infonde la magia tipica dei sogni. Partiamo guardandolo, col rispetto riservato ad un incontro tanto atteso.
Facciamo un lungo traverso su neve buona, che si sposa perfettamente con i nostri ramponi. Si procede rapidamente senza perdere quota, sappiamo esattamente dove andare, anche se ogni nostro movimento è la ricerca di una conferma.
Aggirato lo spigolo dello sperone ci affacciamo sul suo versante est, dove troviamo un canale che si impenna incuneandosi fra le rocce. Avevamo intuito la sua presenza, ma solo ora abbiamo la sicurezza della sua esistenza. Lo risaliamo picche in mano, tracciando nella neve poco portante, fino a guadagnare una spalla dello sperone. Qui ci leghiamo; sotto di noi, nella valle innevata, inizia a stagliarsi l'ombra elegante della nostra cresta.
Procediamo in conserva protetta, prevalentemente su roccia. Sappiamo che dobbiamo seguire il filo dello sperone, ma la linea non è obbligata e si cerca sempre il passaggio migliore.
Iniziamo a fare qualche tiro, alternandoci in testa, viaggiando su terreno misto e vario, che però permette sempre di proteggere bene, soprattutto coi friend. Certo bisogna saper leggere la montagna ad ogni passo, ma proprio questo è il bello!
Sbuchiamo infine ad una selletta nevosa, sovrastata da una paretina verticale che al centro presenta una linea di neve dura, interrotta a metà. La superiamo con un bel tiro di corda, guadagnando la base di un torrione giallo che segna la fine della prima parte della via.

Ora bisogna trovare come superare il torrione giallo strapiombante, così da accedere al grande nevaio superiore. A destra la parete precipita rocciosa e perpendicolare per centinaia di metri. Proviamo allora a sinistra, disarrampicando su alcune placche rocciose sporche di neve, fino a raggiungere una cengia di crosta delicata che ci permette di arrivare al grande nevaio.
La scarna relazione che abbiamo con noi indica che ora dovremmo traversare a sinistra, per uscire sulla spalla della montagna. Ma senza neppure discuterne decidiamo di perseguire nella nostra idea: procedere su dritti, rimanendo il più fedeli possibili allo sperone. Così, con un paio di tiri, ci ritroviamo a pistare nella neve fonda verso la parte alta del Nery.
Siamo meno impegnati a cercare la via e ci guardiamo attorno, mentre risaliamo il ripido pendio. E' come se improvvisamente ci rendessimo conto dell'immensa bellezza in cui ci troviamo immersi, riuscendo a distaccarci dalla nostra scalata.
Arrivati ad una sella, doppiamo il filo della cresta e puntiamo ad un canalino che porta in alto verso il blu del cielo. Il canalino si incunea sui 60 gradi, di neve e ghiaccio buono; lo superiamo senza problemi, lavorando di ramponi e piccozze, e sbuchiamo così oltre la cornice. Ci accorgiamo però che la cima è tutt'altro che vicina.
Facciamo l'ennesimo tiro su neve sfondosa, un breve traverso su di una placchetta delicata e poi risaliamo un altro colatoio ghiacciato. Ormai attendiamo solo di poter finalmente scorgere la vetta e constatare che non c'è più nulla da salire.
Avanziamo in conserva lungo il fianco della cresta sommitale, tracciando nella neve alta, finché, con un ultimo faticoso passo, eccoci solcare l'antecima nord. Il vento ci graffia la faccia, la cima vera e propria è a pochi metri da noi, facciamo quasi fatica a credere che sia veramente lì.
Quegli ultimi passi sulla cresta nevosa, prima di toccare il punto più alto del Nery, sono carichi di un'intensità profonda. Ci sentiamo leggeri, investiti improvvisamente da una gioia incontenibile.
Arrivati in vetta ci abbracciamo emozionati, con l'aria gelida che danza insieme noi, portando con sé tutta la nostra felicità.

Fa freddo per stare troppo in cima, iniziamo così a scendere. Percorriamo la cresta Ovest che d'inverno non è banale e presenta enormi cornici, poi trotterellando per il pendio di neve rientriamo al bivacco.
Mentre le ombre della sera ci investono, poco prima di raggiungere la macchina, non troviamo molto da dire; l'avventura sta per finire, ma la magia di un sogno realizzato rimane come una luce profonda, un ardore di bellezza che ci sa accompagnare anche lontani dalle nostre montagne.

mercoledì 25 novembre 2015

25 Novembre 2012 - Canale Foglia (il Duca)


Riporto la relazione della nuova via aperta da me e da Ale esattamente tre anni fa sulla parete Est del Pizzo della Forcola. La via è stata da noi valutata AD, ma con neve più abbondante le difficoltà potrebbero diminuire. E' probabilmente anche l'unica via che sale questa parete.

PREMESSA: Il Pizzo della Forcola è una montagna assai poco frequentata in una valle bellissima e poco battuta. L'idea di salire questo canale è nata ad Ale alcuni anni fa, osservando le bellissime stratificazioni rocciose della parete est e scorgendo la logicità di questa linea. Cercando sia in internet che (soprattutto) sulla GMI Mesolcina-Spluga di Gogna, da nessuna parte risulta una relazione di questa salita, quindi la nostra potrebbe anche essere una prima. Certamente questo canale (da noi battezzato Canale Foglia) merita di essere un classico delle valli sconosciute.

RELAZIONE: Lasciata l'auto a Voga (SO), presso il piccolo parcheggio in prossimità di un tornante, sfruttando le numerose scorciatoie saliamo in direzione dell'Alpe Dardano, dove termina la strada sterrata. 
Proseguiamo per il bel sentiero che velocemente raggiunge l'Alpe Buglio, quindi in falsopiano per un bellissimo lariceto ci inoltriamo nella valle per raggiungere, sul lato opposto, il bivacco Forcola, posto alla base dell'omonimo pizzo. 
Da qui, risalendo i pendii soprastanti e spostandoci leggermente verso destra, puntiamo alla base del canale (che dal rifugio appare come una rampa obliqua) e per pascoli e detriti appena innevati, raggiungiamo il cono di valanga ai piedi dell'intaglio. Poco sopra, finalmente attacchiamo il canale. 
La prima parte è costituita da un profondo solco roccioso, all'interno del quale abbiamo trovato ghiaccio vivo, quasi una cascata anche se non molto pendente (45°). A metà di questo solco, di circa 100m, si trova il tratto più delicato della via: un salto di una decina di metri (60°) costituito da placche di roccia coperte da un sottile strato di ghiaccio (comunque ben piccozzabile). 
Usciti dal solco, il canale si allarga mantenendo però sempre una linea evidente. Si continua a salire su pendenza pressoché costante, salvo in una strettoia dove l'inclinazione e il ghiaccio aumentano costituendo un passaggio un po' più tecnico. 
Il canale termina ad una selletta; da qui si risale di qualche metro la cresta a sud giungendo in vetta alla montagna (ometto). 

In discesa abbiamo percorso la cresta ovest che costituisce la via normale del Pizzo della Forcola. Il percorso è evidente anche se non segnato (se non per la presenza di un chiodo); siamo così scesi disarrampicando su salti di roccia mai difficili (max II) ma esposti. Individuato il primo canalino di neve percorribile, abbiamo lasciato la cresta scendendo nel vallone nord da cui abbiamo raggiunto il passo della Forcola. Per nevai e traccia di sentiero siamo quindi ritornati all'Alpe Buglio, e da qui alla macchina.