martedì 2 febbraio 2016

La doppia, la fatica e la bellezza (il Duca)

Muovo gli ultimi passi sulla cornice della cengia e mi infilo delicatamente sotto al roccione di granito, recuperando la mia corda rossa.
Sono stanco morto. 
Con movimenti lenti ma continui striscio sul bordo superiore del camino, percorro la stretta fessura appoggiando le punte dei ramponi sulla roccia ruvida e mi attacco al chiodo. Sotto di me le placche precipitano verticali, mentre infilo la corda nell’anello e inizio a doppiarla.
Ormai ci sono, il cielo si è completamente annuvolato e io sono li. Attaccato alla roccia con la mano sinistra, mi dondolo nel vuoto e lancio la corda verso il basso: le spire rosse si srotolano nel camino di granito e neve fino a tendersi. Ora sono pronto a scendere.

Nella sala colloqui il genitore dell’alunno guarda preoccupato il preside, mentre il ragazzo si tiene la testa con la mano sinistra. I suoi occhi sono velati, quasi che quello che viene detto non lo riguardi.
Io vorrei direi qualcosa, ma non mi esce niente, niente che non sembri già ripetuto mille volte. Nessun ragionamento che non abbia già fatto con quel ragazzo per convincerlo che sta buttando via la sua vita. L’unica cosa che mi viene in mente è quella doppia di ritorno dal Ligoncio. 
Ripercorro con la mente quello che è successo prima: la notte al bivacco, nel buio gelido di fine autunno. I passi nella neve fonda sulla spalla superiore, prima dell’ultima parete, quando mi sono accasciato sulla piccozza con le gambe spompe. E poi l’ultimo passo di rampone, il passo con cui mi sono finalmente affacciato al di sopra della cornice terminale e ho scorto la croce, la cima.

Non so che cosa c’entri tutto questo con lo studente e il colloquio. Però vorrei che quel ragazzo potesse provare per un istante quello che io ho provato nell'attimo del lancio della corda, quando ci si appresta a scendere dalla parete con la tua montagna in tasca. Quando si prende coscienza che quella bellezza immensamente grande con fatica è diventata tua. Non di tua proprietà, ma tua, consapevolmente tua. Come tua mamma è tua mamma.
Quello studente probabilmente non diventerà mai un alpinista, né gli auguro di diventarlo. Ma come insegnante mi accontenterei di potergli trasmettere quella sensazione muta, quella nostalgia profonda per una bellezza assoluta a cui appartenere.
La fatica dell’alpinista altro non è che la faticosa conquista di questa consapevolezza.