mercoledì 25 luglio 2007

Il Dubbio e la Bellezza (il Duca)

foto: il Duca, Montagne oltre il Bosco, Giugno 2007

In questi anni abbiamo spesso messo al centro delle nostre discussioni il dubbio. Il dubbio come strumento per il superamento di ogni metafisica della certezza, il dubbio come motore per il distacco da ogni supposta verità definitiva.
Abbiamo concordato sul fatto che il dubbio sia essenziale alla filosofia per evitare di prendere per risolti dei problemi che sono invece radicati nel nostro vivere. A supporto di questo ci viene la frase di Sini per cui “il filosofo pone enigmi, non li risolve”. Che poi è lo stesso di Socrate che è sapiente perché più indaga più scopre di non sapere, più va avanti più prende coscienza dell’indefinibilità della verità. La verità gli sfugge sempre, la verità vive nella discussione stessa, nel dialogo. La verità è dialettica, dinamica.
A questo punto con un gran salto (vi evito il mio Hegel) siamo a Nietzsche. Alla verità come moto vivente, alla verità che sfugge perfino ad ogni parola. Al moto dionisiaco che non è ordinato in regole sintattiche; che non è nel distacco della parola che paralizza comunque il senso in significati precostituiti. Siamo alla volontà di potenza.

Sini ci illustra bene, ma già ce lo dice Heidegger, che il progetto (che poi non è un progetto) del super-uomo nietzschiano non è realizzabile. E la pazzia di Nietzsche è lì a testimonianza.
Noi dobbiamo convivere con la nostra costitutiva distanza dalla verità. Una distanza che non è la distanza da una dimensione metafisica, ma è la distanza dal costituirsi stesso della verità. Una distanza che è il segno attraverso cui vediamo sempre ogni verità senza poterla mai vivere direttamente.
Eppure la filosofia può in qualche modo frequentare questa distanza facendoci vivere il significato attraverso i segni della dialettica. Significato detto che va messo poi in dubbio per tentare di dirlo nel nostro nuovo incontro con la verità. Filosofia che è il nostro sguardo critico.
Questo dire, dubitare, ridire e ridubitare è ciò che Sini chiama transito delle pratiche. E’ il tempo ciclico, è il moto filosofico. E il tendere alla verità è il desiderio.
E’ buffo come in fondo ogni vero filosofo ponga il desiderio come moto dell’uomo. E’ interessante come la razionalità filosofica abbia bisogno dell’irrazionalità del desiderio per muoversi. Questo ce lo dice Platone con l’irrazionale pazzia che sta sopra il logos, ce lo dice Aristotele per cui il Primo Motore muove per amore, ce lo dice Sini.

Ho detto queste cose, che in realtà, anche se in forme diverse, ho tratto dai nostri discorsi, per parlare della bellezza. “La bellezza salverà il mondo” dice Dostoevskij ne “l’Idiota” e credo abbia ragione.
“Nella bellezza sta la nostra libertà… poterla vivere, respirare…” queste parole mi sono venute alle labbra mentre in cima ad una montagna superavo il dualismo cartesiano. Da lassù non si distingue l’oggettività della cosa dalla bellezza del tutto. Là non c’è il misurabile e il soggettivo, lo scientificamente sperimentabile e l’impressione personale. Lassù si vive la montagna nell’unica armonia della bellezza che è intrinseca nella roccia come nel mio passo, nel bosco come nel mio respiro, nel ghiacciaio come nella mia fatica.
La bellezza è qualcosa che si vive, la bellezza si dà nel nostro rapporto con il mondo. La bellezza, come la verità, si dà nel nostro respirare l’essere; essere in cui siamo immersi. La bellezza è l’armonia di questo respiro.

Quando percepiamo qualcosa la percepiamo sempre nell’affezione che abbiamo per essa. Percependo nostra madre percepiamo nostra madre, è persino banale dirlo, e solo a posteriori, solo artificialmente, possiamo dividere i suoi caratteri “oggettivi” da quelli “soggettivi”. Avete forse mai visto vostra madre non in quanto vostra madre? Questa sarebbe la solita superstizione scientifica.
La bellezza non è forse allora l’affezione che possiamo cogliere nel rapporto con il mondo e che, per quanto tradizionalmente la categoriamo come estetica (dei sensi), lo scienziato nega come oggettiva? Eppure la bellezza la viviamo, la respiriamo, la percepiamo nel nostro danzare col mondo. Una cosa bella la percepiamo come bella, anche se poi artificialmente aggiungiamo che tale bellezza non è un carattere costitutivo della cosa.
La bellezza la viviamo e cosa più incredibile la desideriamo. Un desiderio che è parallelo al nostro desiderio di verità (di che altro ci parla Platone nel Fedro?). Un desiderio che è ermeneutico, un desiderio che desidera qualcosa di inafferrabile e pur sempre desiderato.

Quando allora dico che nella bellezza sta la nostra libertà sto cercando di superare il dubbio arenante. Perché il maggior rischio del dubbio è quello di rendere tutto dubbio inteso come nulla.
Che tutto è dubitabile, deve essere inteso nel senso che ogni verità metafisica, cioè scritta, è destinata a crollare. Ma la verità, la verità dinamica, è qualcosa che c’è, o meglio è.
La verità è il nostro danzare col mondo. E’ il nostro desiderare il mondo e il nostro continuo inseguirlo. E cosa si insegue se non la bellezza? La bellezza intesa come verità che sempre desidero e che tuttavia è inafferrabile. Verità che, come la bellezza, non è decisa da me ma non sarebbe tale se non la riconoscessi vivendo (ecco l’inizio duale).

Ecco che allora la persona da noi amata è il nostro amare (ogni cosa di lei ci si rivela nel nostro amarla) e noi siamo il nostro amarla. E la verità di questo amare non è in un concetto d’amore (dubitabile), ma è nel nostro amare stesso. Un amare che è un inseguire infinito proprio perché lei, il suo amore, è nel continuo innamorarmi di lei e farla innamorare di me.
Il dubbio è il crollo dell’amore formale, dell’amore del matrimonio borghese statico e definito in una formula. Ma il dubbio dinamico (filosofico) è l’affermarsi della dinamica dell’amore vivente, dell’amore sempre attivo, pulsante. L’amore formale è qualcosa destinato ad appassire perché è la forma che è sempre dubitabile, ma l’amore dinamico è qualcosa invece destinato ad amare
Ciò che è soggetto al dubbio è il “vero” della domanda “ci amiamo da-v-vero?”, perché questo vero si riferisce ad un supposto amore vero e oggettivo che sta al di fuori del moto delle nostre anime amanti. Quel vero invece non è qualcosa di verificabile in una formula, ma è qualcosa che si costituisce continuamente nel nostro amare, nel continuo innamorarsi, nell’amore vivente.
E questo amore è l’amore stesso che ha il filo-sofo per la verità. E’ l’amore per la bellezza che non posso mai afferrare ma a cui posso partecipare continuando a frequentarla (esattamente lo stesso motivo per cui l’alpinista passa da una cima all’altra).

La bellezza è allora ciò che ci muove. E’ quel desiderio irrefrenabile che lanciato dal dubbio ci deve spingere sempre avanti. E’ il superamento della metafisica come del nichilismo del dubbio arenante. E’ la nostra libertà perché è il nostro far filosofia, è il nostro frequentare la distanza, non per congelarla ma per viverla (e così in qualche modo colmarla).
Certo la bellezza è qualcosa di tragico in quanto mai raggiunto (non bisogna intenderla in modo ingenuo). E’ tragica soprattutto per il nostro continuare a vedere le cose secondo una morale inevitabilmente umana (quindi metafisica), che vorrebbe avere mentre noi soprattutto siamo.
L’importante è quindi andare avanti, vivere il mondo, respirare la bellezza e in questo modo parteciparvi. Amare la bellezza e in questo modo, per un certo verso, abbattere la staticità formale (per quanto sarà possibile). Ciò che credo si debba fare è stare nel rapporto col mondo e con gli altri come l’alpinista sta esposto al vento: con tutta la nostra volontà, senza poterlo giustificare. Continuando il cammino e così vivendo la verità che è nel nostro passo.

domenica 15 luglio 2007

Saggio Alpinistico Filosofico (il Duca)

foto: il Duca, L'Emilius dal Colle Invergneux, Luglio 2007

Il Filosofo, come l’Alpinista, procede nella speranza della meta. Ma forse la verità è nella viva bellezza che si respira ad ogni passo…
Facilmente questa frase, al di là della sua poesia, può far irritare: come mai l’alpinista potrebbe andare avanti se non credesse che là in alto ci sia la vetta e che questa sia raggiungibile? Come mai il filosofo potrebbe continuare la sua indagine se non credesse nella verità ultima?
E poi dove sta la bellezza di ogni passo al di là della metafora? Il mondo e la vita sono piene di tristezze, delusioni e dolori…
Queste obbiezioni sono tutte giuste e legittime. Io stesso non posso accettare la mia frase, io stesso ho motivo di rancore verso chi pronunci questa frase. Eppure sono io a pronunciare questa frase. Sono io che decido di rischiare pronunciando questo aforisma.
Ma vedete ciò che sarebbe meglio, ciò che il nostro cuore ci chiede, non sempre e non per forza corrisponde a ciò che è. Noi speriamo nella metafisica, la nostra fede è metafisica.
Metafisica che poi è sia meta-fisica (oltre il fisico) sia meta fisica (meta fisicamente intesa).
Meta fisica che è la verità sostanziale di Platone e che è la cima dell’alpinista.

Ma cosa centra l’alpinista con il filosofo? Questa è la domanda che giustamente dovrete pormi per prima.
Non centrano nulla se non per il fatto che sono entrambi uomini immersi nella realtà e che entrambi sono innamorati (ognuno del suo). L’alpinista è colui innamorato della montagna così come il filosofo è colui innamorato della sapienza. L’alpinista è colui che tende, con scarponi e piccozza, alla vetta; così come il filosofo è colui che tende, con la sua razionalità, alla verità.
Entrambi sperano che l’oggetto del loro amore sia un qualcosa di presente, sia una meta fisica. Ma in realtà credo, ed è molto probabile, che ciò a cui tendono sia una meta-fisica, qualcosa che va oltre la fisica. Qualcosa di irraggiungibile, di ermeneutico.

Quale alpinista è mai arrivato in Vetta? Nessuno. Se un alpinista fosse arrivato in Vetta non sarebbe più alpinista, non tenderebbe più alla montagna e dunque avrebbe rinunciato all’alpinismo. Ma un alpinista che rinuncia all’alpinismo non è più alpinista.
Certo gli alpinisti conquistano le vette, le hanno già conquistate quasi tutte, ma la Vetta non l’hanno mai conquistata. Se non forse chi in montagna è morto. Chi, nel tendere al suo amore, è morto bruciato dal desiderio.
A questo proposito mi torna utile la figura del Don Giovanni utilizzata da Kirkegaard. Come il protagonista della fase estetica non poteva fermarsi ad una sola donna, ma una volta conquistata la bellezza di una fanciulla doveva trovarne subito un’altra, così l’alpinista una volta conquistata la vetta di una montagna ne deve conquistare un’altra. Quale alpinista si fermerebbe mai sulla cima della sua montagna? Nessuno se non forse da morto. Da morto si che si fermerebbe sulla Vetta (che poi altro non è che il paradiso: chiedetelo ad un alpinista.)

E vista la figura dell’alpinista credete che per un qualunque innamorato sia diverso? Pensate alla ragazza di cui siete innamorati. La vostra meta fisica è lei ma lei non l’assimilerete mai. La vostra meta è il suo amore, ma come mai potrete averlo?
Mettiamo che la vostra vetta sia riuscire a mettervi insieme alla ragazza di cui siete innamorati. Bene, e una volta che vi sarete messi insieme potrete fermarvi? Una volta che avrete appurato che vi ama potrete ritenervi soddisfatti e tornarvene a casa?
Il matrimonio borghese vi risponde di si. Ma a questo punto voi siete come l’alpinista che non va più in montagna, e state pur certi che la vostra ragazza, se non è completamente scema, vi mollerà.
Ma se l’amore non è l’impulso animale di cui va tanto fiero anche lo stallone, una volta conquistata la vostra ragazza la continuerete a conquistare. La vostra ragazza va continuamente fatta innamorare di voi e voi continuamente dovrete innamorarvi di lei, così l’amore rimane vivo.
Per quanto riguarda il filosofo il discorso è lo stesso. Ma per parlare di questo lascio la parola a Platone che nel Fedro lo spiega certamente meglio di come possa fare io in mille vite.

Se la Vetta, l’Amore della vostra ragazza e la Verità sono qualcosa di meta-fisico ciò non vuol dire però che siano nulla. Ciò che diventa nulla è la nostra staticità. E’ il fermarsi per tutta la vita su di una vetta. L’amore va tenuto sempre vivo, la ricerca sempre attiva, bisogna salire sempre verso la montagna. Chi si ferma è morto (quale migliore pace dei sensi?), o almeno è morto in quanto uomo, come ci dice Boezio di Dacia.
L’importante è che ogni passo sia indirizzato verso l’alto. Che il nostro passo non ricada sempre lasciandoci fermi. L’importante è salire sempre, sempre avanti.

Questo passo non è bello di per sé nel senso di pacificatore. La sua bellezza è una bellezza tragica, la bellezza di cui ci parla Whitehead, la bellezza del sublime. È la bellezza del ghiacciaio che brilla sotto la luna e può risucchiarci da un momento all’altro.
La bellezza è tragica perché ermeneutica, irraggiungibile. La bellezza è la bellezza della verità filosofica, è la bellezza della vostra ragazza, è la bellezza della montagna. E’ la bellezza tragica che però c’è. C’è perché è ciò che ci spinge ad andare avanti.
La bellezza c’è perché è ciò che tiene vivo il nostro desiderio, ciò che ci pone davanti all’oggetto del nostro desiderio.
Se penso quanto ho maledetto il desiderio che ci pone sempre a distanza da ciò che desideriamo. Ma senza desiderio ciò che desideriamo non ci sarebbe nemmeno per noi…

Ecco che allora dico che “Il filosofo, come l’alpinista, procede nella speranza della propria meta. Ma forse la verità è nella viva bellezza che si respira ad ogni passo...” per questo dobbiamo andare avanti sempre.
E il dubbio che la vetta a cui siamo arrivati non sia la Vetta è ciò che ci permetterà di non morire (almeno come uomini).

martedì 3 luglio 2007

Ricordando il Rwenzori

foto: il Duca, Spedizione Umana Dimora al Rwenzori, Giugno 2006

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