giovedì 17 gennaio 2019

Il Manichino (il Duca)

Si fermò all'improvviso, arrestando il suo passo, e guardò dritto dentro alla vetrina.
Chi lo notò per caso, tra la gente che gli passava attorno, ebbe l'impressione di trovarsi difronte ad uno squilibrato (o a un qualche visionario) e tirò dritto come gli altri.
Lui vide il manichino dall'aspetto giovane e sensuale, seppure immobile e fasullo, e lo guardò con la stessa inquieta espressione con cui guardava le sue colleghe di lavoro.
Non sapeva che farsene di un manichino, non avrebbe mai pensato di comprarne uno, però in qualche modo quella persona finta lo affascinava, ma forse se ne rese conto veramente solo in quel momento.
Il manichino era una figura femminile, gambe lunghe e seno abbondante, il tutto contornato da un vestitino rosso che risaltava il bianco della plastica. Non aveva nemmeno la parrucca, ma due lunghe ciglia che le coronavano gli occhi spenti.
Rimase li a fissare dentro alla vetrina, assorto nella sua visione poco inusuale, che però quel giorno era riuscita a stupirlo. Rivangava nel cervello come alla ricerca di un qualche pensiero, una congettura che gli svelasse il significato di quel suo curioso interessamento.
Pensando perse il punto focale del manichino e come in un film gli occhi si assettarono sul vetro della vetrina, che come uno specchio rifletteva l'altro lato della strada.
Ora guardava l'immagine proiettata di un uomo che sedeva su di una panchina; forse era alla fermata di un autobus. L'uomo era vecchio, o così almeno appariva ad una prima occhiata, portava una giacca marrone forse un po' troppo oltre la sua taglia e la barba era malfatta. E poi indossava dei jeans che, non so perché, definirei trasandati.
Trasandato, ecco, questo era il tratto caratteristico dell'uomo seduto sulla panchina, era il tratto che lo distingueva nettamente dal manichino dall'altra parte del vetro.
Oltre al vetro una donna finta, perfettamente incarnante il suo status, il suo essere sociale; riflesso nel vetro invece un uomo trasandato, ombra specchiata di una persona che andrebbe ripulita e risistemata. Aiutata.
L'uomo sulla panchina attraversò la strada e si diresse verso quell'altro tizio incantato davanti alla vetrina:
“Non hai perso il vizio di scorgere Nietzsche in ogni dove?”
Lui si girò lentamente. Non scattò, ma caricò quel suo volteggio di tutta l'intensità di cui disponeva:
“Cosa sarebbe Nietzsche senza Platone...” fece fatica a completare la frase perché un groppo alla gola gli crebbe come un melone.
Faceva fatica a constatare quanto avesse perduto in tutto quel tempo, come era stato possibile. Allora sembravano immortali, eroi invincibili destinati a cambiare il mondo, ora erano riflessi trasandati in una vetrina, fissi a guardare un manichino.
Come era stato possibile? Eppure era accaduto.

Ora stavano seduti in un bar e ricordarono la frase detta un milione di anni fa, da uno di loro: “ogni vera ontologia scorre nella dialettica di un caffè”.
Sorrisero al ricordo di quella frase, uno dei due accennò perfino una mezza risata, ma risultava troppo falsa e forzata, così la strozzò in gola.
“Sai qual è la cosa peggiore amico mio?”
“Dimmi...”
“Constatare l'impossibilità dell'azione. Non che le condizioni non permettano di agire, perché se così fosse basterebbe attendere il giusto momento. Ma la cosa peggiore è l'impossibilità dell'azione dovuta alla mancanza di idee, del cosa-fare”.
“Per farmi capire meglio di cosa parli, dovresti dirmi di quale problema stiamo trattando...”
“Stiamo parlando DEL problema! Che fine hanno fatto i sogni, le speranze? Eravamo gli uomini che guardano oltre la grotta, gli spiriti liberi, che fine ha fatto il nostro esserci?”.
L'amico lo guardò con un'occhiata severa, un mezzo rimprovero:
“Mi tocca fare il realista amico mio: i sogni erano sogni e tutto il resto ragazzate, illusioni. Siamo atterrati nel mondo e contro di quello non si vince, al massimo ci si adegua...”
“E a te va bene così? Ti senti a posto?”
“Poco importa quello che va bene a me o no, che alternativa c'è, che possibilità abbiamo? Il mondo viene prima. La realtà. Noi dobbiamo avere a che fare con questa, non c'è altro substrato. O hai qualche altra idea, che sia un'idea possibile del fare?”
“Ecco, ci sei; questa è la cosa peggiore, la mancanza di altra possibilità. Possiamo solo constatare l'impossibilità dell'azione altra, l'impossibilità dovuta alla mancanza di idee: siamo troppo vecchi per sognare...”
“Ma troppo vivi per non essere insoddisfatti, non pensare che non ti capisca. E quando si è disillusi la speranza diventa malinconia e noi siamo a questo punto”.
Sorrisero entrambi, insieme, e questa volta il gesto era sincero, pulito.
Lentamente come un torrente fangoso la dialettica aveva ripreso a scorrere. Non che avrebbe portato da qualche parte, ma per un attimo era tornata a muoversi. Fu allora che pensarono che forse non è neppure la strada, ma il metro successivo che può dare una qualche speranza: l'unico punto di contatto tra volontà e potenza, come diceva quell'altro tizio che oggi non c'era.
Avevano finito di bere il loro caffè e si stavano per salutare, lo sapevano. La finestra vicina al loro tavolino dava sulla strada, dove sorgeva un negozio con una grande vetrina. Di fronte al negozio stava parcheggiato un furgone rosso con una scritta bianca, due operai stavano caricando sul mezzo un manichino, presto lo avrebbero sostituito ma ora non importava: la malinconica speranza, una volta su un milione, aveva vinto sull'impossibilità dell'impossibilità. Per oggi a loro bastava così.