venerdì 24 novembre 2017

Rinascita (il Duca)

Sabato mattina; mi sveglio che il tempo è bello.
Da un po' non vado per un motivo o per l'altro, ma la voglia c'è. Salgo in macchina e parto per la montagna più vicina: il solito Resegone.
Parcheggio e imbocco il sentiero per i Piani d'Erna, poi mi porto verso nord e salgo a caso per il bosco, su terreno ghiacciato e neve fresca. Un ultimo canalone di rocce incrostate ed eccomi in cima al Pizzo Morterone, dove anni fa ero sbucato dopo una via impegnativa.
Ora sono tranquillo e al sole, col sentiero delle creste a tratti imbiancato e a tratti ancora estivo, circondato da erba e rocce candide.
Cammino senza fretta, godendomi il panorama che si innalza al di sopra della foschia che ricopre la pianura; la bellezza è tutta attorno a me, mentre io percorro i miei pensieri.
Supero alcune cime minori, su e giù. Ripasso il nome delle vette, delle vie, dei canaloni che salgono dal versante lecchese di questa piccola montagna, vero mondo complesso. I camosci corrono lungo i terreni più impervi, scappando all'ombra per poi fermarsi a guardarmi: sentinelle delle torri di calcare.
Supero la traccia del canale Bobbio, aggiro il Dente del Resegone e scendo alla bocchetta successiva. Mi avvicino, accelero un po' il passo e butto giù un occhio: giù per quel famoso budello. Un brivido mi percorre la schiena, un leggero sorriso mi solca il volto. Quanti ricordi.
Riguardo giù attentamente, scrutando quelle rocce grigie e umide alla ricerca delle sensazioni là perdute. Me lo dico ancora: “laggiù non ci tornerei mai più, ma ne è valsa la pena!”.
Quel canale è un viaggio, una salita a cui ho osato pensare per molto tempo, un po' titubante. Quel canale è un incubo e un sogno, una domanda e una risposta: un viaggio nel cuore della montagna con l'amico Ale.
Sale il budello tra placche e sottili goulotte di ghiaccio fragile. I pezzi di metallo della vecchia ferrata penzolano appesi e minacciosi, carichi di ruggine come brandelli di una civiltà ormai perduta, mangiata dalla parete selvaggia.
Poi i camini stretti, pareti lisce e vetrate segnate dai graffi bianchi dei ramponi. Lo stridore delle punte sulla roccia, le scintille e l'odore di zolfo che alimenta quella sensazione di essere davvero nel cuore dell'inferno.
Lo sforzo tremulo nel cercare di strisciare verso l'alto, con tutti i muscoli tesi e la percezione appiccicosa della precarietà. Il buio che sembra incupirsi sempre di più, mentre gocce di ghiaccio precipitano continuamente, tintinnando sul casco e sulla faccia. Il gelo che colpisce le ossa, ancora prima che la pelle, l'umido.
Infine l'ultima sosta, la neve che diventa più spessa, il rampone che finalmente tiene bene. Tornare al giorno, al sole che fa brillare il manto bianco della cresta e noi che felici ci sdraiamo alla luce, ormai fuori dalle difficoltà. E' qui che con un sorriso abbiamo riscoperto il contrasto tra il buio inquietante del canale e la luminosità della vetta: è stata la rinascita!

In questo tranquillo sabato sono ancora lì che scruto nostalgico quelle rocce grige e lugubri, e sorrido. Quanto è tutto più facile in alpinismo. Quanto è bello l'alpinismo dove si può lottare andando alla montagna e poi rinascere nella bellezza, ridendo e riscoprendosi felici. Quanto è bello l'alpinismo, per davvero!

sabato 11 novembre 2017

Il riposo (il Duca)

Riposo, quiete.
Il silenzio di un bivacco con l'amico. Fuori il vento soffia tremendo, facendo scricchiolare la struttura della nostra tana, dentro il fornellino fischia sotto al pentolino.
Fuori la notte buia, con le stelle fredde che macchiano il cielo in una volta, corona sopra alle cuspidi rocciose. Dentro due amici seduti su vecchi materassi, attorno al tavolo di legno ruvido. Sapori di cibi diversi, l'odore delle candele, la lieve luce della luna che si intrufola dal vetro sporco.
Domani si scalerà, ma la salita alla montagna parte da qui, da questa quiete, da questo riposo che mi fa star bene. Si chiacchiera tranquillamente, senza la fretta di dirsi qualcosa. Si sta insieme seduti calmi, come fosse casa nostra da sempre. E forse è così.

Quiete, beatitudine.
Il cuore che lentamente batte nel petto, la presenza dell'amico a qualche metro di distanza; eppure non ci si dice niente, non ce n'è bisogno.
Ognuno coi propri pensieri, ognuno con la propria beatitudine, ma si è una cordata anche qui, soprattutto adesso su questa cima. Sotto al sedere la roccia dura, il sedile più comodo al mondo. Attorno a noi la bellezza che si fa immensa a perdita d'occhio; ora che è nostra è così famigliare che appare ancora più bella.
Riguardo il profilo dello sperone appena scalato, quello spigolo frastagliato e sottile di roccia ruvida. Fino a poco tempo prima eravamo lì, mettendoci alla prova, danzando sulla verticalità della montagna, sentendoci liberi. Assaporando passaggio dopo passaggio quella libertà che ora trova compimento in questa quiete. Sono felice.

Beatitudine, compimento.
Il Perù è lontanissimo, ma ora che sono sdraiato in questa tenda non importa: sono a casa lo stesso.
Sono partito in piena notte verso l'ignoto e il buio non ha fatto che peggiorare la situazione. Quella montagna gigantesca che incombeva su di me, la fatica schiacciante dell'alta quota e l'immensità dei ghiacci andini. Tutto nella notte era ignoto e la speranza, il lavoro di mesi, lottava con l'imprevisto e la possibilità di fallire.
Ma ora la cima è qui, in questo cuore sdraiato nella tenda.
Il sacco a pelo aperto sul mio corpo, abbandonato sul materassino di gomma. Chiudo gli occhi respirando profondamente, fuori il silenzio amato e la percezione della montagna ormai conosciuta.
Il riposo, la quiete, la beatitudine: il compimento di un sogno.
Essere in pace con me stesso, è questa la più grande conquista che mi ha dato la montagna: la possibilità di chiudere gli occhi e avere un attimo di purissima serenità. E un grazie.