lunedì 9 novembre 2020

La Grande Parete dei Palù (il Duca)

Scendiamo dalla funivia carichi all'inverosimile. Ci sentiamo quasi fuori luogo davanti ad alpinisti e turisti ben ordinati nel loro vestiario; il loro format è perfettamente appropriato, la loro tenuta, il loro bagaglio, il portamento è esattamente conforme al lusso d'alta quota del posto in cui ci troviamo: il Diavolezza.
Noi ci muoviamo ciondolanti e goffi; abbiamo zaini, borsoni, sacchetti di plastica squarciati che dobbiamo tenere accartocciati per non perdere la roba che dentro ristagna in ordine sparso. 
Strisciando lungo la morena ci allontaniamo, quasi fossimo due ladri. Ci abbassiamo verso una bella piazzola circondata da un muretto a secco, da noi scorta nella pietraia a picco sul ghiacciaio sottostante. Qui montiamo la nostra tenda, sotto lo sguardo incuriosito degli ospiti dell'albergo-rifugio, che con discrezione si lasciano distrarre dalle nostre manovre. 
Ci sistemiamo, spargiamo le nostre cose tra pietre e residui di nevai e pian piano diventiamo gli abitanti della valle. Proprio così iniziamo a sentirci, ritrovando sempre più concretamente quell'appartenenza che sembrava avessimo tenuto da parte in attesa di ritrovarci qui. 
Il nostro piccolo accampamento è pronto, apriamo le birre e le patatine che ci siamo portati, come in un rito già predisposto. Adesso, con calma, possiamo dedicarci al nostro compito di oggi: studiare l'oggetto che ci ha mossi fin qui, ammirare il re assoluto di questo luogo, prepararci per l'incontro con quella parete che ci attende da anni: la Nord del Piz Palù. 

Tutto sembra portare in direzione di quella cattedrale scintillante, sorretta dai suoi tre speroni di roccia nera. I suoi seracchi bianchi precipitano verticali, accatastati uno sull'altro, baciati dal sole di inizio luglio che li fa brillare, che li rende abbaglianti. 
Non importa per quale motivo ti trovi al Diavolezza, non importa in che veste, con quali aspettative e con quali progetti. Se sei lì non puoi che guardare a quella montagna e alla sua parete. Lo fa il turista giapponese che scatta foto con il suo enorme teleobiettivo, lo fa la ragazza ben vestita che la osserva con un iniziale scarso interesse, ma che non riesce a toglierle gli occhi di dosso, senza forse neppure sapere che cosa sia. Lo fa il cameriere che lavora al rifugio, che invece la conosce bene e che la guarda fumando intensamente, gettandole addosso tutti i pensieri che gli riempiono il cervello. 
E poi la guardiamo noi, cercando in quella parete la via che abbiamo studiato, che siamo venuti a scalare. Speriamo di riconoscere un segno, di trovare un qualche conforto in quell'enorme tempio la cui realtà (sappiamo bene) sarà sempre altro da quanto ammirato in foto. E' questo un momento intensissimo, lo spazio temporale in cui si cerca di trasporre l'idea, il progetto, nella concretezza di qualcosa che è immensamente altro da te. Qualcosa che però sembra custodire un segreto che è anche il tuo, misteriosamente, fatalmente, intimamente. Una bellezza infinita che ti chiama inesorabilmente. 

E' ancora piena notte quando lasciamo la tenda, ma il buio è riempito dalla luce intensa della luna, che argentata rende tutto fatato e spettrale. 
Le condizioni sono ottime, ma come sempre l'avvicinamento sembra interminabile. Incontriamo qualche rara persona lungo il nostro cammino: una coppia si accinge a sciogliere la neve fuori dalla propria tendina, qualche alpinista sale lentamente per la via normale, una cordata attacca la Kuffner. Noi soli proseguiamo per la sezione più lontana, selvaggia e solitaria della parete: lo sperone Zippert. 
Camminiamo silenziosi, avvolti nell'immensità del ghiacciaio che inizia a tingersi dei colori del mattino; sopra di noi la montagna si innalza spaventosa. Superati i resti di alcuni enormi seracchi crollati, iniziamo a risalire il cono nevoso che fa da trampolino alla nostra via. 
Ci fermiamo a studiare la situazione, lì in piedi sotto alla nostra linea, davanti alla porta del nostro cammino. Ci leghiamo quasi tremolanti, con reverenziale timore. 
Ale fissa la sua piccozza nella superficie dura del manto nevoso, mentre io inizio a strisciare lungo la grossa cornice che fa da ponte sulla crepaccia terminale. Con un passo delicato ma deciso pianto il rampone nel fianco del seracco, ficco le picche al di là della voragine e passo, iniziando a salire verticale verso l'alto. 
E' l'inizio di un viaggio immenso, di una danza estenuante, di una scalata che dura come una vita intera. 
Percorso il lungo couloir tra neve ottima, salti di misto marcio e piccole cascatelle di ghiaccio spaccoso, ci inoltriamo nella sezione più maledetta della parete. Arrampichiamo su roccia coperta da una spanna di neve pesante, dove ogni metro va guadagnato precariamente, grattando i ramponi alla disperata ricerca di un appoggio. Saliamo in diagonale, piazzando qualche rara protezione dal valore prevalentemente psicologico, fino a trovare un passaggio nella grande muraglia verticale che ci sovrasta. 
Avanziamo con alcuni tiri di misto, sempre delicati, sperando di poter finalmente raggiungere l'ultima parte dello sperone, che la nostra relazione descrive come una ripida lama di neve di 300 metri. 
Quando però con un ultimo tiro incerto esco da un camino di roccia marcia, bucando la cornice che fa da tappo al filo dello spigolo, inizio a temere che le rogne non siano ancora finite. Al posto di un'uniforme rampa nevosa, mi trovo infatti davanti una maledettissima processione di merli e contrafforti rocciosi, misti a neve per nulla sicura. 
Non c'è niente da fare, è la montagna a condurre il ballo e tocca a noi adeguarci: d'altronde è questa l'essenza dell'alpinismo. 
Con i nervi sempre più a fil di pelle avanziamo in conserva protetta. A destra la neve è dura, ma il pendio è verticale e non sempre è agevole passare, a sinistra la neve è invece marcia e insidiosa e si stacca in sibilanti slavine ogni volta che proviamo a piazzare un appoggio. In mezzo passiamo noi, superando uno dietro l'altro i salti rocciosi che ci fanno dannare. Ormai sono troppe ore che siamo dentro a questa infernale parete. 
Raggiunta una selletta nevosa decretiamo che non è più il caso di continuare su questo terreno che ci sta rendendo troppo lenti. Così decidiamo di fare quello che ieri ci eravamo promessi di non fare: buttarci sullo scivolo nord est, pericoloso per le valanghe, ma teoricamente più rapido. 
Con un delicato traverso ci portiamo così in piena parete, ma le speranze di una progressione veloce vanno ancora una volta a farsi benedire; mi trovo infatti a tracciare nella neve fradicia che arriva a mezza coscia. Sono esausto, sempre più frequentemente devo appoggiarmi alle picche per rifiatare. Ale mi incita, si propone anche di passare davanti lui, ma sono ormai troppo posseduto da questa parete per poter cedere anche solo un pizzico di questa massacrante sublimità. 
Come se non bastasse le cose iniziano anche a complicarsi, perché più saliamo più ci troviamo ad intersecare colate di ghiaccio vivo e duro come pietra. Sembra un paradosso, io continuo a borbottare, a imprecare passando dall'affondare come fossi nelle sabbie mobili, a piantare viti da ghiaccio come fossimo su una cascata in pieno inverno. Sembra che ogni legge fisica qui non valga, qui vale solo la montagna e le nostre strane idee che ci hanno portato ad infilarci su di qua. 
Più in alto, ormai allo stremo, decidiamo di piegare ancora una volta andando a riprendere il filo dello sperone. La vetta è una cinquantina di metri sopra di noi, ma sembra non arrivare mai. Noi affrontiamo un torrione dopo l'altro, con affanno, senza poterci permettere di perdere neppure per un istante la concentrazione. Continuiamo a ripetercelo: “attenzione, attenzione”. 
Quando con un ultimo passo sbuco oltre l'ultimo salto di misto e vedo solamente una lama di neve compatta tra me e la fine della parete, non riesco a crederci e sento nel cuore un'emozione immensa. Chiamo Ale, grido, mentre lui è impegnato sull'ennesimo passaggio delicato, poi avanzo godendomi quegli ultimi passi come fossero la cosa più bella del mondo, ed in fine, finalmente, eccomi in cima! 
E' strano, è come se improvvisamente mi accorgessi che c'è la luce, che la neve è bianca e il cielo è azzurro. Ale mi raggiunge, ci sediamo a mangiare qualcosina facendo fatica a trovare parole da dire, ma non serve. Qualche cordata ci passa vicino, stanno facendo la traversata delle creste e si complimentano con noi, guardando un po' increduli le nostre tracce che precipitano giù nell'abisso inghiottite dalla parete. 
Iniziamo la discesa il cui primo tratto è in realtà una cavalcata in cresta che ci porta a toccare le tre cime del Palù. Poi giù, giù lungo gli ampi tornanti che aggirano i grandi crepacci. Quando giungiamo finalmente alla nostra tenda siamo dei cadaveri ambulanti: stanchi morti, bruciati dal sole, spossati, quasi fatichiamo ad articolare frasi di senso compiuto. Beviamo tutto quello che abbiamo lasciato al campo: acqua, birra, vino. Poi riguardiamo quella parete, ora che abbiamo recuperato almeno la forza che ci permette di poterlo fare, di poter constatare ancora una volta la bellezza immensa di quel mondo gigantesco.

martedì 14 luglio 2020

Our Shangri-La (Mark Knopfler)

It’s the end of a perfect day
for all the surfer boys and girls
the sun’s dropping down in the bay
and falling off the world
there’s a diamond in the sky
our evening stone in our Shangri-La

Get that fire burning strong
right here and right now
it’s here and then it’s gone
there’s no secret anyhow
we may never love again
to the music of guitars in our Shangri-La

Tonight your beauty burns into my memory
the wheel of heaven turns above us endlessly
this is all the heaven we got
right here where we are in our Shangri-La.

Tonight your beauty burns into my memory
the wheel of heaven turns above us endlessly
this is all the heaven we got
right here where we are in our Shangri-La
in our Shangri-La
in our Shangri-La

venerdì 10 aprile 2020

La Via del Blues (il Duca)

Sdraiato lì sul letto, rinchiuso in casa forzatamente da più di un mese: nervoso, frustrato, incazzato nero.
Le lezioni online di oggi sono finite, ancora sento il fastidio delle cuffie sulle orecchie, ancora sento il fastidio delle solite cose che semplicemente hanno perso la loro fisicità per acutizzarsi nel virtuale.
Dovrei studiare, ma il senso di indefinito, di incertezza, oggi mi ha tolto ogni stimolo, sembra aver appassito persino la mia voglia di fare ciò che mi piace.
Me ne sto semplicemente lì sul letto, irrequieto, all’odiosa ricerca del nulla.
Faccio partire la musica sul mio telefonino, a caso, senza una logica. Il mio amore per il silenzio oggi se ne è andato chissà dove; provo a riempire la testa, ma le note sembrano sorde, sembrano volatizzarsi nel cielo oltre la finestra.
Passa una canzone, poi un'altra; non saprei mai dire quante ne trascorrono, come gli insipidi minuti di queste giornate. Eppure improvvisamente, come una porta che si apre sbattendo, una vibrazione rompe il muro del nulla e dell’odio: un tintinnio di chitarra blues.
Non so neppure che canzone sia, non mi interessa. Non so nemmeno chi la suona, ora non importa. Quella vibrazione mi fa tornare in una macchina tanto tempo fa, con gli amici, le chiacchiere e gli zaini nel bagagliaio.

Il blues era la colonna sonora, la corda che univa viale Corsica al sogno di giornata. Si partiva eccitati, preoccupati, raramente spensierati. A volte incazzati, a volte felici, a volte distratti, ma soprattutto si partiva perché quello era il motivo per cui vivevamo. Non importava se eravamo in due o in cinque, il blues non mancava mai: quel tocco di chitarra era qualcosa di imprescindibile, almeno quanto la piccozza sul ghiaccio e il friend sulla roccia.
Penso a quei momenti, anzi ne sento l’essenza preziosa scorrermi sulla pelle. Sono queste note che riescono a farli vibrare in modo così vivo, sotto anni di altre cose accumulate. Perché non è solo il covid e la carrellata di assurdi decreti ad aver ostacolato la via del blues, già da tempo la corsa si è rallentata.
Parliamoci chiaro: negli ultimi anni ho scalato una marea di montagne, centinaia e centinaia, ovunque: Europa, Asia, America. Ho vissuto esperienze grandiose, momenti stupendi ed esaltanti. Solo pensando all’ultimo anno ho ancora nel cuore la bellezza dello Spigolo dell’Orso, la mitica eleganza dell’Eiger, l’avventura della cresta del Nery, in prima invernale. Non posso che custodire con nostalgia la libertà provata nel regno dell’Ela, il grande viaggio dall’Ararat al mare, la solitaria sulla nord del Mulhacen.
Eppure l’epopea del blues era altro, non dico meglio, ma qualcosa che abbiamo perso dimenticandolo.
Eravamo meno esperti, forse meno forti, certamente meno consapevoli. Però avevamo davanti un ventaglio di sogni tutti ancora da osare, da scoprire. La fantasia correva ancora spaziando verso l’infinto, come un puledro selvaggio lanciato verso l’alba: si andava in montagna freneticamente, ingordi come un affamato che si getta su una tavola imbandita.

E’ inevitabile, si invecchia e le prospettive giustamente cambiano; l’amore evolve dalla passione giovanile alla profondità più consapevole del matrimonio. La montagna è là che ci aspetta, il nostro ossigeno, la nostra dimensione da cui nulla riuscirà a tenerci lontani, costi quel che costi. La nostra casa che ci consente di respirare e di essere vivi. 
Però stasera, sorprendentemente, sono meno incazzato del solito: in questo blues che continua a graffiare ho riscoperto il sangue vivo, il mio sangue più rosso. I miei amici sono a distanza di una telefonata, le montagne sono sempre belle, e noi abbiamo nelle scarpe la stessa storia, in petto il medesimo cuore che batteva sulla strada tra Viale Corsica e i nostri sogni: lungo la via del blues. Stasera sono più forte di tutto, del virus, della gabbia, dell’idiozia dei nostri governanti e della sfiga! Sono ancora vivo col mondo dinnanzi.

venerdì 6 marzo 2020

By My Side (INXS)

In the dark of the night
Those small hours
Uncertain and anxious
I need to call you

Rooms full of strangers
Some call me friend
But I wish you were so close to me

In the dark of night
Those small hours
I drift away
When I'm with you

In the dark of night
By my side
In the dark of night
By my side
I wish you were
I wish you were

Here comes the clown
His face is a wall
No window
No air at all

In the dark of night
Those faces they haunt me
But I wish you were
So close to me

In the dark of night
By my side
In the dark of night
By my side
I wish you were
I wish you were

In the dark of night
By my side
In the dark of night
By my side
I wish you were
I wish you were

In the dark of night
Those faces they haunt me
Well, I wish you were so close to me

Yes I wish you were
By my side

giovedì 5 marzo 2020

Otto bicchieri, una Montagna (il Duca)


Fuori il buio, il silenzio assoluto. Dentro la penombra, con il cameriere sdraiato sul divano che aspetta che finalmente ce ne andiamo a dormire. Sulla terrazza otto persone sedute sotto ad una lampada, attorno ad un tavolo rotondo: otto bicchieri, una bottiglia di whisky mezza piena e due già completamente vuote. Otto storie, otto strade che hanno portato a quel tavolo.
Nel cielo nero come la pece brilla la luna argentata e panciuta, quei raggi vengono riflessi da un biancore perduto tra realtà e mito: le nevi perenni dell'Ararat, la montagna biblica che abbiamo appena scalato.
Abbiamo condiviso da sconosciuti la prima notte in quello stesso albergo, dove semplicemente noi eravamo gli italiani e loro i polacchi. Abbiamo condiviso il pulmino e poi i primi passi e la salita verso il Campo Base. Ogni squadra nella propria piccola tendina, con il vento che alzava la polvere impossessandosi di ogni cosa.
Abbiamo condiviso la tenda mensa dove ogni giorno, pasto dopo pasto, siamo diventati un'unica squadra: noi, i polacchi, gli armeni e i curdi.

La salita dell'Ararat non è una scalata tecnica, per lo più si tratta di saper camminare facendo attenzione al fattore quota. Però è un viaggio affascinante.
Al centro di una pianura arida, dai tratti desertici, s'innalza gigantesco ed imponente il trapezio innevato di questa montagna vulcanica, la cui immagine facilmente spiega l'aurea sacra di cui si è circondata nei secoli, popolo dopo popolo, era dopo era.
Arrivati in macchina fino ai 2100 metri di altitudine, si inizia a salire dolcemente, attraversando conche erbose puntinate da enormi massi neri di origine magmatica. Guadagnando quota il verde lascia sempre più spazio alla sabbia e ai sottili ghiaioni ed è in questo ambiente, su di una costola rocciosa, che abbiamo montato il nostro Campo Base, a circa 3200m sul livello del mare.
La posizione del campo è stata scelta dalle nostre guide curde, ma non è delle migliori, visto che siamo bersagliati da un vento incessante che continuamente riempie le tende e tutta la nostra attrezzatura di una sabbia rossiccia. Così, mentre ci aggiriamo tra i cavalli e i sacchi di iuta ammucchiati, guardiamo con un po' di invidia i russi che si sono accampati poco più sotto, su di un bucolico praticello protetto dal vento.
Il giorno successivo iniziamo a perdere i primi componenti della spedizione: alcuni armeni non sono stati bene durante la notte e abbandonano il Campo Base tornando a valle. Noi altri, rimessi insieme armi e bagagli, partiamo con tutta calma per il Campo 1.
Il terreno si fa sempre più arido e questa volta si sale per una traccia ripida: in linea d'aria siamo molto sotto alla montagna la cui cima s'innalza duemila metri sopra di noi, ora si tratta di guadagnare quota. La marcia è molto lenta per favorire un buon acclimatamento.
Nel primo pomeriggio montiamo il campo a 4150m, sospeso su di un ripido ghiaione che precipita appena sotto alla nostra piazzola. Ci rilassiamo nella tendina, in attesa della cena e dell'assalto finale alla vetta.
Verso mezzanotte ci ritroviamo tutti insieme nella tenda comune dove beviamo del brodo caldo e mangiamo qualcosa. Poi si parte nuovamente verso l'alto.
La notte è nera come la pece, noi saliamo lungo una costola di roccia e sabbia spazzata dal vento. La marcia è ancora più lenta del giorno precedente e per noi italiani e i polacchi è una vera tortura, dato che siamo tutti allenati e ben acclimatati. Diversi armeni però non sono per niente in forma e strada facendo li perdiamo un po' per volta.
Per loro è una delusione immensa e scendendo fanno fatica a trattenere le lacrime: per il popolo armeno l'Ararat è infatti una montagna sacra e la sua salita è più un pellegrinaggio che non una spedizione alpinistica, ma purtroppo sottovalutando quest'ultimo aspetto si trovano a fare i conti con un ostacolo che per alcuni diventa insormontabile.
Perdiamo anche uno dei polacchi, che a causa di un problema agli occhi decide di rinunciare e di ritornare al campo.
Il freddo è intenso e la lentezza della marcia lo rende ancora più penetrante e gravoso. Ma Metin (il capo delle guide curde) insiste perché il gruppo rimanga unito.
Arrivati però all'imbocco del ghiacciaio, dove inizia anche ad albeggiare, Metin non ci tiene più: messi i ramponi, con i polacchi partiamo a spron battuto verso la cima. La neve è ottima e i raggi di sole che si allungano sui ghiacci perenni della montagna sembrano spingerci in direzione della vetta. Un ultimo strappo e finalmente tocchiamo il punto più alto dell’Ararat, felici e commossi.
Sono le 6:00, siamo a 5137m e tutto attorno si apre l'orizzonte delle pianure armene, iraniane e curde, che lentamente vengono conquistate dalla luce del nuovo giorno. Noi stiamo lì in piedi con addosso un'emozione unica, tra il sacro e il profano.
La discesa è lunga, ma questa volta ognuno se la gestisce come meglio crede. Dopo una lunga sosta al Campo 1, con sonnellino annesso, smontiamo tutto e scendiamo al Campo Base, dove ogni squadra si monta la propria tenda.
Il clima è quello della festa, la spedizione è prossima alla conclusione e si può assaporare la bellezza di essersi realizzati. Ed è ancora più bello la sera successiva, quando questa realizzazione la si condivide: con delle bottiglie di whisky, attorno ad un tavolo rotondo, sotto ad una lampada dove otto strade si intrecciano tutte assieme, per l'ultima volta.