giovedì 5 marzo 2020

Otto bicchieri, una Montagna (il Duca)


Fuori il buio, il silenzio assoluto. Dentro la penombra, con il cameriere sdraiato sul divano che aspetta che finalmente ce ne andiamo a dormire. Sulla terrazza otto persone sedute sotto ad una lampada, attorno ad un tavolo rotondo: otto bicchieri, una bottiglia di whisky mezza piena e due già completamente vuote. Otto storie, otto strade che hanno portato a quel tavolo.
Nel cielo nero come la pece brilla la luna argentata e panciuta, quei raggi vengono riflessi da un biancore perduto tra realtà e mito: le nevi perenni dell'Ararat, la montagna biblica che abbiamo appena scalato.
Abbiamo condiviso da sconosciuti la prima notte in quello stesso albergo, dove semplicemente noi eravamo gli italiani e loro i polacchi. Abbiamo condiviso il pulmino e poi i primi passi e la salita verso il Campo Base. Ogni squadra nella propria piccola tendina, con il vento che alzava la polvere impossessandosi di ogni cosa.
Abbiamo condiviso la tenda mensa dove ogni giorno, pasto dopo pasto, siamo diventati un'unica squadra: noi, i polacchi, gli armeni e i curdi.

La salita dell'Ararat non è una scalata tecnica, per lo più si tratta di saper camminare facendo attenzione al fattore quota. Però è un viaggio affascinante.
Al centro di una pianura arida, dai tratti desertici, s'innalza gigantesco ed imponente il trapezio innevato di questa montagna vulcanica, la cui immagine facilmente spiega l'aurea sacra di cui si è circondata nei secoli, popolo dopo popolo, era dopo era.
Arrivati in macchina fino ai 2100 metri di altitudine, si inizia a salire dolcemente, attraversando conche erbose puntinate da enormi massi neri di origine magmatica. Guadagnando quota il verde lascia sempre più spazio alla sabbia e ai sottili ghiaioni ed è in questo ambiente, su di una costola rocciosa, che abbiamo montato il nostro Campo Base, a circa 3200m sul livello del mare.
La posizione del campo è stata scelta dalle nostre guide curde, ma non è delle migliori, visto che siamo bersagliati da un vento incessante che continuamente riempie le tende e tutta la nostra attrezzatura di una sabbia rossiccia. Così, mentre ci aggiriamo tra i cavalli e i sacchi di iuta ammucchiati, guardiamo con un po' di invidia i russi che si sono accampati poco più sotto, su di un bucolico praticello protetto dal vento.
Il giorno successivo iniziamo a perdere i primi componenti della spedizione: alcuni armeni non sono stati bene durante la notte e abbandonano il Campo Base tornando a valle. Noi altri, rimessi insieme armi e bagagli, partiamo con tutta calma per il Campo 1.
Il terreno si fa sempre più arido e questa volta si sale per una traccia ripida: in linea d'aria siamo molto sotto alla montagna la cui cima s'innalza duemila metri sopra di noi, ora si tratta di guadagnare quota. La marcia è molto lenta per favorire un buon acclimatamento.
Nel primo pomeriggio montiamo il campo a 4150m, sospeso su di un ripido ghiaione che precipita appena sotto alla nostra piazzola. Ci rilassiamo nella tendina, in attesa della cena e dell'assalto finale alla vetta.
Verso mezzanotte ci ritroviamo tutti insieme nella tenda comune dove beviamo del brodo caldo e mangiamo qualcosa. Poi si parte nuovamente verso l'alto.
La notte è nera come la pece, noi saliamo lungo una costola di roccia e sabbia spazzata dal vento. La marcia è ancora più lenta del giorno precedente e per noi italiani e i polacchi è una vera tortura, dato che siamo tutti allenati e ben acclimatati. Diversi armeni però non sono per niente in forma e strada facendo li perdiamo un po' per volta.
Per loro è una delusione immensa e scendendo fanno fatica a trattenere le lacrime: per il popolo armeno l'Ararat è infatti una montagna sacra e la sua salita è più un pellegrinaggio che non una spedizione alpinistica, ma purtroppo sottovalutando quest'ultimo aspetto si trovano a fare i conti con un ostacolo che per alcuni diventa insormontabile.
Perdiamo anche uno dei polacchi, che a causa di un problema agli occhi decide di rinunciare e di ritornare al campo.
Il freddo è intenso e la lentezza della marcia lo rende ancora più penetrante e gravoso. Ma Metin (il capo delle guide curde) insiste perché il gruppo rimanga unito.
Arrivati però all'imbocco del ghiacciaio, dove inizia anche ad albeggiare, Metin non ci tiene più: messi i ramponi, con i polacchi partiamo a spron battuto verso la cima. La neve è ottima e i raggi di sole che si allungano sui ghiacci perenni della montagna sembrano spingerci in direzione della vetta. Un ultimo strappo e finalmente tocchiamo il punto più alto dell’Ararat, felici e commossi.
Sono le 6:00, siamo a 5137m e tutto attorno si apre l'orizzonte delle pianure armene, iraniane e curde, che lentamente vengono conquistate dalla luce del nuovo giorno. Noi stiamo lì in piedi con addosso un'emozione unica, tra il sacro e il profano.
La discesa è lunga, ma questa volta ognuno se la gestisce come meglio crede. Dopo una lunga sosta al Campo 1, con sonnellino annesso, smontiamo tutto e scendiamo al Campo Base, dove ogni squadra si monta la propria tenda.
Il clima è quello della festa, la spedizione è prossima alla conclusione e si può assaporare la bellezza di essersi realizzati. Ed è ancora più bello la sera successiva, quando questa realizzazione la si condivide: con delle bottiglie di whisky, attorno ad un tavolo rotondo, sotto ad una lampada dove otto strade si intrecciano tutte assieme, per l'ultima volta.

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