Il
Nanga Parbat, la montagna assassina.
Così
recita il cartello che dalla strada invita i passanti ad ammirare il grande
gigante del Kashmir, avvolto nella sua armatura di seracchi e rocce verticali.
La
montagna appare cattiva, terribile e inaccessibile. Enorme.
Eppure alcuni uomini hanno dedicato un gran pezzo della propria esistenza a bramarla, a
sognarla, ad adorarla. Bellezza ammaliante che richiede sacrifici e sforzi
enormi. Fatiche immani, gelo, lacrime, perdite irrecuperabili.
Che
cosa si nasconde lassù perché uomini le sacrifichino davvero la propria vita?
Qual è il richiamo irresistibile che da quella vetta scende inondando il cuore? Che cosa canta la montagna dall'alto della sua indifferente eternità?
Follia?
Desiderio? Di cosa?
Un
pensiero mi martella nella testa, continuamente, fin da quando l'elicottero
pakistano ha portato in salvo Elisabeth. Penso a Tomek lassù sulla montagna,
cieco e infortunato nel crepaccio a 7300m, rannicchiato, solo.
Avrà
sentito l'eco dell'elicottero avvicinarsi e poi allontanarsi dai fianchi del
gigante? Quando si sarà rassegnato, accantonando ogni speranza di salvezza?
Penso
all'alpinista polacco che per sette volte si è portato ai piedi del Nanga
Parbat, in inverno, quando il freddo è insostenibile e le condizioni
proibitive. Ha corteggiato quel colosso terrificante, luminoso, bellissimo.
Ha
provato a scalarlo da ognuno dei suoi versanti, da diverse vie, con diversi
compagni; sempre col suo stile.
In
anni di alpinismo himalayano Tomek non ha mai affrontato un altro ottomila, non
ha mai provato ad attaccare il Nanga in estate, per vedere com'era. Tomek era
forse un pazzo, squinternato, equipaggiato ai minimi termini e senza un becco
di quattrino, però aveva ben chiaro il suo sogno: si chiamava Nanga Parbat, in
inverno.
Chissà
nella profondità del suo cuore, conservato in un corpo che stava morendo
congelato e disidratato, cosa provava Tomek. Chissà lì nel crepaccio, alla fine
del suo cammino, cosa pensava Tomek che finalmente sul Nanga Parbat ci era
stato per davvero, fino alla cima, in inverno.
C'è
qualcosa di straordinario nella realizzazione di un sogno, di un sogno così
grande che è terribile, che richiede sacrifici enormi e fatica e perdite
irrecuperabili. C'è qualcosa di straordinario che fa commuovere perché non è un
bel sogno, non è uno di questi sogni che ci hanno insegnato a sognare.
Si
tratta di quello che Nietzsche chiamava sognare
più vero. Si tratta di accettare il prezzo del proprio desiderio e
affondare la propria vita nella durezza della terra, passo dopo passo, verso
una bellezza enorme. Una bellezza immensamente più grande di noi che però sa
chiamarci in modo inesorabile, intimamente, fino alla profondità del nostro essere.
Forse
per un ideale così, che è molto più di un sogno, val la pena dare la vita: val
la pena vivere, per davvero.
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