Sabato
mattina; mi sveglio che il tempo è bello.
Da un
po' non vado per un motivo o per l'altro, ma la voglia c'è. Salgo in macchina e
parto per la montagna più vicina: il solito Resegone.
Parcheggio
e imbocco il sentiero per i Piani d'Erna, poi mi porto verso nord e salgo a
caso per il bosco, su terreno ghiacciato e neve fresca. Un ultimo canalone di
rocce incrostate ed eccomi in cima al Pizzo Morterone, dove anni fa ero sbucato
dopo una via impegnativa.
Ora
sono tranquillo e al sole, col sentiero delle creste a tratti imbiancato e a
tratti ancora estivo, circondato da erba e rocce candide.
Cammino
senza fretta, godendomi il panorama che si innalza al di sopra della foschia
che ricopre la pianura; la bellezza è tutta attorno a me, mentre io percorro i
miei pensieri.
Supero
alcune cime minori, su e giù. Ripasso il nome delle vette, delle vie, dei
canaloni che salgono dal versante lecchese di questa piccola montagna, vero mondo complesso. I camosci corrono lungo i terreni più impervi, scappando
all'ombra per poi fermarsi a guardarmi: sentinelle delle torri di calcare.
Supero
la traccia del canale Bobbio, aggiro il Dente del Resegone e scendo alla
bocchetta successiva. Mi avvicino, accelero un po' il passo e butto giù un
occhio: giù per quel famoso budello. Un brivido mi percorre la schiena, un
leggero sorriso mi solca il volto. Quanti ricordi.
Riguardo
giù attentamente, scrutando quelle rocce grigie e umide alla ricerca delle
sensazioni là perdute. Me lo dico ancora: “laggiù non ci tornerei mai più, ma
ne è valsa la pena!”.
Quel
canale è un viaggio, una salita a cui ho osato pensare per molto tempo, un po'
titubante. Quel canale è un incubo e un sogno, una domanda e una risposta: un
viaggio nel cuore della montagna con l'amico Ale.
Sale
il budello tra placche e sottili goulotte di ghiaccio fragile. I pezzi di
metallo della vecchia ferrata penzolano appesi e minacciosi, carichi di ruggine
come brandelli di una civiltà ormai perduta, mangiata dalla parete selvaggia.
Poi i
camini stretti, pareti lisce e vetrate segnate dai graffi bianchi dei ramponi.
Lo stridore delle punte sulla roccia, le scintille e l'odore di zolfo che
alimenta quella sensazione di essere davvero nel cuore dell'inferno.
Lo
sforzo tremulo nel cercare di strisciare verso l'alto, con tutti i muscoli
tesi e la percezione appiccicosa della precarietà. Il buio che sembra incupirsi
sempre di più, mentre gocce di ghiaccio precipitano continuamente, tintinnando
sul casco e sulla faccia. Il gelo che colpisce le ossa, ancora prima che la
pelle, l'umido.
Infine
l'ultima sosta, la neve che diventa più spessa, il rampone che finalmente tiene
bene. Tornare al giorno, al sole che fa brillare il manto bianco della cresta e
noi che felici ci sdraiamo alla luce, ormai fuori dalle difficoltà. E' qui che con un sorriso abbiamo riscoperto il contrasto tra il buio inquietante del canale e la
luminosità della vetta: è stata la rinascita!
In
questo tranquillo sabato sono ancora lì che scruto nostalgico quelle rocce
grige e lugubri, e sorrido. Quanto è tutto più facile in alpinismo. Quanto è
bello l'alpinismo dove si può lottare andando alla montagna e poi rinascere
nella bellezza, ridendo e riscoprendosi felici. Quanto è bello l'alpinismo, per
davvero!