Riprendendo in mano il mio diario, posso constatare che quest’anno ne
ho combinate un bel po’. Dalle invernali nelle Orobie, alle aiguilles del
Bianco; dalle dolomiti estive, all’Himalaya indiano; dai 4000 del Rosa, alle
creste selvagge dello Spluga. Passando per il biellese, l’Engadina, il Grossglockner…
In questa serata un po’ malinconica posso essere soddisfatto del mio
andare; e con un pizzico di orgoglio, posso alzare il mio bicchiere brindando a
tutte quante le mie cime.
Tra tutte le salite ce n’è però una su cui cade in particolare la mia
attenzione. Non è certamente la più impegnativa, né la più epica, però ha un profumo
particolare. Una bellezza “diversa”.
Vado a prendere le foto e me le riguardo con attenzione. Quelle
immagini assumono un sapore più intenso, come se tornassero in vita,
mischiandosi alla poesia della grappa.
Sono immagini che parlano di una montagna bianca, sorretta da rocce
scure. Ai suoi piedi si stende la valle verde, come il tappeto magico di una
fiaba. Il torrente scorre limpido, mi pare di percepirne lo scrosciare, mentre
grandi vacche dal pelo lungo pascolano libere.
Sembra quasi di rivederli, cinque amici fuori dal bivacco rosso che
chiacchierano, scherzano, attendono la loro scalata. Due si allontanano per
raccogliere l’acqua che sgorga dal ghiacciaio, gli altri si mettono poi a
preparare la cena.
Si fanno grandi discussioni e stupide battute, mentre le candele
danzano sul tavolo di legno e le voci si perdono nella notte stellata.
Il giorno seguente le due cordate scalano lo spigolo nord della cima di
Piazzi e arrivati in vetta si raccolgono per una preghiera. Il vento soffia,
intorno c’è una bellezza che commuove. Ore dopo gli amici sono seduti alla
festa della malga, con il formaggio e la polenta che si sposano con vino e grappa.
Già, gli amici. Ecco cos’è quel sapore particolare: l’amicizia
coronata dalla bellezza della montagna. Quell’amicizia che spesso si nasconde
nell’ambizione della cima, che rimane in ombra nella foga del salire, del
“fare” la montagna.
Da tanto tempo, da troppo, non mi fermavo a respirare quel clima,
quella bellezza totale; non solo nella scalata, ma nello stare insieme. Quella
volta si è acceso qualcosa che mi pareva di aver perso; o meglio, in quei
giorni quel qualcosa ha brillato in modo più intenso. Ed è stato bellissimo.
Ripenso a quella scalata con un po’ di malinconia, forse con un po’ di
timore.
Timore che quello che ho vissuto in quei giorni possa venire
nuovamente sommerso, possa venire nascosto da qualcosa di più “importante”, di
più “impellente”. Timore che l’alpinismo possa mangiarsi via tutto, nonostante
sia stato l’alpinismo stesso ad averlo creato.
Perché non c’è amicizia più grande che scalare insieme
le montagne, ma non c’è accecamento più grande della foga del fare (forse me ne
sto rendendo conto solo ora).
1 commento:
Caro Stefano, è proprio così.
Forse si arriva tardi a capire che la bellezza della montagna non è una cosa da conquistare ma la lente attraverso la quale si vede una realtà sostanziale: che l'uomo non è solo ma è dentro un popolo di mendicanti che desidera un'armonia apparentemente perduta.
Siamo orfani di una bellezza più grande che si manifesta attraverso degli indizi lasciati lungo la strada.
La montagna è l'indizio che alcuni (tra cui noi!) hanno avuto la Grazia di trovare.
La prova di questo: ho conosciuto alpinisti che, nonostante non potessero più andare in montagna, avendo negli occhi questo segreto, la nostalgia non li stava consumando.
Ciao Papà
(Conquistatore insieme ad Amedeo Giudici e Marco Porro dello spigolo sud del Sasso di Monte, mt 1.215 - Valsolda.
La leggenda narra che Amedeo, bergamasco di Vilminore di Scalve, che si era caricato nello zaino un bastone per fare la croce da lasciare in vetta, arrivato in cima al Sasso urlò ad un gruppo di capre che erano salite dalla facile cresta nord: "pota, l'era mia mei salta 'o da 'sta banda?")
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