In questi anni abbiamo spesso messo al centro delle nostre discussioni il dubbio. Il dubbio come strumento per il superamento di ogni metafisica della certezza, il dubbio come motore per il distacco da ogni supposta verità definitiva.
Abbiamo concordato sul fatto che il dubbio sia essenziale alla filosofia per evitare di prendere per risolti dei problemi che sono invece radicati nel nostro vivere. A supporto di questo ci viene la frase di Sini per cui “il filosofo pone enigmi, non li risolve”. Che poi è lo stesso di Socrate che è sapiente perché più indaga più scopre di non sapere, più va avanti più prende coscienza dell’indefinibilità della verità. La verità gli sfugge sempre, la verità vive nella discussione stessa, nel dialogo. La verità è dialettica, dinamica.
A questo punto con un gran salto (vi evito il mio Hegel) siamo a Nietzsche. Alla verità come moto vivente, alla verità che sfugge perfino ad ogni parola. Al moto dionisiaco che non è ordinato in regole sintattiche; che non è nel distacco della parola che paralizza comunque il senso in significati precostituiti. Siamo alla volontà di potenza.
Sini ci illustra bene, ma già ce lo dice Heidegger, che il progetto (che poi non è un progetto) del super-uomo nietzschiano non è realizzabile. E la pazzia di Nietzsche è lì a testimonianza.
Noi dobbiamo convivere con la nostra costitutiva distanza dalla verità. Una distanza che non è la distanza da una dimensione metafisica, ma è la distanza dal costituirsi stesso della verità. Una distanza che è il segno attraverso cui vediamo sempre ogni verità senza poterla mai vivere direttamente.
Eppure la filosofia può in qualche modo frequentare questa distanza facendoci vivere il significato attraverso i segni della dialettica. Significato detto che va messo poi in dubbio per tentare di dirlo nel nostro nuovo incontro con la verità. Filosofia che è il nostro sguardo critico.
Questo dire, dubitare, ridire e ridubitare è ciò che Sini chiama transito delle pratiche. E’ il tempo ciclico, è il moto filosofico. E il tendere alla verità è il desiderio.
E’ buffo come in fondo ogni vero filosofo ponga il desiderio come moto dell’uomo. E’ interessante come la razionalità filosofica abbia bisogno dell’irrazionalità del desiderio per muoversi. Questo ce lo dice Platone con l’irrazionale pazzia che sta sopra il logos, ce lo dice Aristotele per cui il Primo Motore muove per amore, ce lo dice Sini.
Ho detto queste cose, che in realtà, anche se in forme diverse, ho tratto dai nostri discorsi, per parlare della bellezza. “La bellezza salverà il mondo” dice Dostoevskij ne “l’Idiota” e credo abbia ragione.
“Nella bellezza sta la nostra libertà… poterla vivere, respirare…” queste parole mi sono venute alle labbra mentre in cima ad una montagna superavo il dualismo cartesiano. Da lassù non si distingue l’oggettività della cosa dalla bellezza del tutto. Là non c’è il misurabile e il soggettivo, lo scientificamente sperimentabile e l’impressione personale. Lassù si vive la montagna nell’unica armonia della bellezza che è intrinseca nella roccia come nel mio passo, nel bosco come nel mio respiro, nel ghiacciaio come nella mia fatica.
La bellezza è qualcosa che si vive, la bellezza si dà nel nostro rapporto con il mondo. La bellezza, come la verità, si dà nel nostro respirare l’essere; essere in cui siamo immersi. La bellezza è l’armonia di questo respiro.
Quando percepiamo qualcosa la percepiamo sempre nell’affezione che abbiamo per essa. Percependo nostra madre percepiamo nostra madre, è persino banale dirlo, e solo a posteriori, solo artificialmente, possiamo dividere i suoi caratteri “oggettivi” da quelli “soggettivi”. Avete forse mai visto vostra madre non in quanto vostra madre? Questa sarebbe la solita superstizione scientifica.
La bellezza non è forse allora l’affezione che possiamo cogliere nel rapporto con il mondo e che, per quanto tradizionalmente la categoriamo come estetica (dei sensi), lo scienziato nega come oggettiva? Eppure la bellezza la viviamo, la respiriamo, la percepiamo nel nostro danzare col mondo. Una cosa bella la percepiamo come bella, anche se poi artificialmente aggiungiamo che tale bellezza non è un carattere costitutivo della cosa.
La bellezza la viviamo e cosa più incredibile la desideriamo. Un desiderio che è parallelo al nostro desiderio di verità (di che altro ci parla Platone nel Fedro?). Un desiderio che è ermeneutico, un desiderio che desidera qualcosa di inafferrabile e pur sempre desiderato.
Quando allora dico che nella bellezza sta la nostra libertà sto cercando di superare il dubbio arenante. Perché il maggior rischio del dubbio è quello di rendere tutto dubbio inteso come nulla.
Che tutto è dubitabile, deve essere inteso nel senso che ogni verità metafisica, cioè scritta, è destinata a crollare. Ma la verità, la verità dinamica, è qualcosa che c’è, o meglio è.
La verità è il nostro danzare col mondo. E’ il nostro desiderare il mondo e il nostro continuo inseguirlo. E cosa si insegue se non la bellezza? La bellezza intesa come verità che sempre desidero e che tuttavia è inafferrabile. Verità che, come la bellezza, non è decisa da me ma non sarebbe tale se non la riconoscessi vivendo (ecco l’inizio duale).
Ecco che allora la persona da noi amata è il nostro amare (ogni cosa di lei ci si rivela nel nostro amarla) e noi siamo il nostro amarla. E la verità di questo amare non è in un concetto d’amore (dubitabile), ma è nel nostro amare stesso. Un amare che è un inseguire infinito proprio perché lei, il suo amore, è nel continuo innamorarmi di lei e farla innamorare di me.
Il dubbio è il crollo dell’amore formale, dell’amore del matrimonio borghese statico e definito in una formula. Ma il dubbio dinamico (filosofico) è l’affermarsi della dinamica dell’amore vivente, dell’amore sempre attivo, pulsante. L’amore formale è qualcosa destinato ad appassire perché è la forma che è sempre dubitabile, ma l’amore dinamico è qualcosa invece destinato ad amare
Ciò che è soggetto al dubbio è il “vero” della domanda “ci amiamo da-v-vero?”, perché questo vero si riferisce ad un supposto amore vero e oggettivo che sta al di fuori del moto delle nostre anime amanti. Quel vero invece non è qualcosa di verificabile in una formula, ma è qualcosa che si costituisce continuamente nel nostro amare, nel continuo innamorarsi, nell’amore vivente.
E questo amore è l’amore stesso che ha il filo-sofo per la verità. E’ l’amore per la bellezza che non posso mai afferrare ma a cui posso partecipare continuando a frequentarla (esattamente lo stesso motivo per cui l’alpinista passa da una cima all’altra).
La bellezza è allora ciò che ci muove. E’ quel desiderio irrefrenabile che lanciato dal dubbio ci deve spingere sempre avanti. E’ il superamento della metafisica come del nichilismo del dubbio arenante. E’ la nostra libertà perché è il nostro far filosofia, è il nostro frequentare la distanza, non per congelarla ma per viverla (e così in qualche modo colmarla).
Certo la bellezza è qualcosa di tragico in quanto mai raggiunto (non bisogna intenderla in modo ingenuo). E’ tragica soprattutto per il nostro continuare a vedere le cose secondo una morale inevitabilmente umana (quindi metafisica), che vorrebbe avere mentre noi soprattutto siamo.
L’importante è quindi andare avanti, vivere il mondo, respirare la bellezza e in questo modo parteciparvi. Amare la bellezza e in questo modo, per un certo verso, abbattere la staticità formale (per quanto sarà possibile). Ciò che credo si debba fare è stare nel rapporto col mondo e con gli altri come l’alpinista sta esposto al vento: con tutta la nostra volontà, senza poterlo giustificare. Continuando il cammino e così vivendo la verità che è nel nostro passo.
Abbiamo concordato sul fatto che il dubbio sia essenziale alla filosofia per evitare di prendere per risolti dei problemi che sono invece radicati nel nostro vivere. A supporto di questo ci viene la frase di Sini per cui “il filosofo pone enigmi, non li risolve”. Che poi è lo stesso di Socrate che è sapiente perché più indaga più scopre di non sapere, più va avanti più prende coscienza dell’indefinibilità della verità. La verità gli sfugge sempre, la verità vive nella discussione stessa, nel dialogo. La verità è dialettica, dinamica.
A questo punto con un gran salto (vi evito il mio Hegel) siamo a Nietzsche. Alla verità come moto vivente, alla verità che sfugge perfino ad ogni parola. Al moto dionisiaco che non è ordinato in regole sintattiche; che non è nel distacco della parola che paralizza comunque il senso in significati precostituiti. Siamo alla volontà di potenza.
Sini ci illustra bene, ma già ce lo dice Heidegger, che il progetto (che poi non è un progetto) del super-uomo nietzschiano non è realizzabile. E la pazzia di Nietzsche è lì a testimonianza.
Noi dobbiamo convivere con la nostra costitutiva distanza dalla verità. Una distanza che non è la distanza da una dimensione metafisica, ma è la distanza dal costituirsi stesso della verità. Una distanza che è il segno attraverso cui vediamo sempre ogni verità senza poterla mai vivere direttamente.
Eppure la filosofia può in qualche modo frequentare questa distanza facendoci vivere il significato attraverso i segni della dialettica. Significato detto che va messo poi in dubbio per tentare di dirlo nel nostro nuovo incontro con la verità. Filosofia che è il nostro sguardo critico.
Questo dire, dubitare, ridire e ridubitare è ciò che Sini chiama transito delle pratiche. E’ il tempo ciclico, è il moto filosofico. E il tendere alla verità è il desiderio.
E’ buffo come in fondo ogni vero filosofo ponga il desiderio come moto dell’uomo. E’ interessante come la razionalità filosofica abbia bisogno dell’irrazionalità del desiderio per muoversi. Questo ce lo dice Platone con l’irrazionale pazzia che sta sopra il logos, ce lo dice Aristotele per cui il Primo Motore muove per amore, ce lo dice Sini.
Ho detto queste cose, che in realtà, anche se in forme diverse, ho tratto dai nostri discorsi, per parlare della bellezza. “La bellezza salverà il mondo” dice Dostoevskij ne “l’Idiota” e credo abbia ragione.
“Nella bellezza sta la nostra libertà… poterla vivere, respirare…” queste parole mi sono venute alle labbra mentre in cima ad una montagna superavo il dualismo cartesiano. Da lassù non si distingue l’oggettività della cosa dalla bellezza del tutto. Là non c’è il misurabile e il soggettivo, lo scientificamente sperimentabile e l’impressione personale. Lassù si vive la montagna nell’unica armonia della bellezza che è intrinseca nella roccia come nel mio passo, nel bosco come nel mio respiro, nel ghiacciaio come nella mia fatica.
La bellezza è qualcosa che si vive, la bellezza si dà nel nostro rapporto con il mondo. La bellezza, come la verità, si dà nel nostro respirare l’essere; essere in cui siamo immersi. La bellezza è l’armonia di questo respiro.
Quando percepiamo qualcosa la percepiamo sempre nell’affezione che abbiamo per essa. Percependo nostra madre percepiamo nostra madre, è persino banale dirlo, e solo a posteriori, solo artificialmente, possiamo dividere i suoi caratteri “oggettivi” da quelli “soggettivi”. Avete forse mai visto vostra madre non in quanto vostra madre? Questa sarebbe la solita superstizione scientifica.
La bellezza non è forse allora l’affezione che possiamo cogliere nel rapporto con il mondo e che, per quanto tradizionalmente la categoriamo come estetica (dei sensi), lo scienziato nega come oggettiva? Eppure la bellezza la viviamo, la respiriamo, la percepiamo nel nostro danzare col mondo. Una cosa bella la percepiamo come bella, anche se poi artificialmente aggiungiamo che tale bellezza non è un carattere costitutivo della cosa.
La bellezza la viviamo e cosa più incredibile la desideriamo. Un desiderio che è parallelo al nostro desiderio di verità (di che altro ci parla Platone nel Fedro?). Un desiderio che è ermeneutico, un desiderio che desidera qualcosa di inafferrabile e pur sempre desiderato.
Quando allora dico che nella bellezza sta la nostra libertà sto cercando di superare il dubbio arenante. Perché il maggior rischio del dubbio è quello di rendere tutto dubbio inteso come nulla.
Che tutto è dubitabile, deve essere inteso nel senso che ogni verità metafisica, cioè scritta, è destinata a crollare. Ma la verità, la verità dinamica, è qualcosa che c’è, o meglio è.
La verità è il nostro danzare col mondo. E’ il nostro desiderare il mondo e il nostro continuo inseguirlo. E cosa si insegue se non la bellezza? La bellezza intesa come verità che sempre desidero e che tuttavia è inafferrabile. Verità che, come la bellezza, non è decisa da me ma non sarebbe tale se non la riconoscessi vivendo (ecco l’inizio duale).
Ecco che allora la persona da noi amata è il nostro amare (ogni cosa di lei ci si rivela nel nostro amarla) e noi siamo il nostro amarla. E la verità di questo amare non è in un concetto d’amore (dubitabile), ma è nel nostro amare stesso. Un amare che è un inseguire infinito proprio perché lei, il suo amore, è nel continuo innamorarmi di lei e farla innamorare di me.
Il dubbio è il crollo dell’amore formale, dell’amore del matrimonio borghese statico e definito in una formula. Ma il dubbio dinamico (filosofico) è l’affermarsi della dinamica dell’amore vivente, dell’amore sempre attivo, pulsante. L’amore formale è qualcosa destinato ad appassire perché è la forma che è sempre dubitabile, ma l’amore dinamico è qualcosa invece destinato ad amare
Ciò che è soggetto al dubbio è il “vero” della domanda “ci amiamo da-v-vero?”, perché questo vero si riferisce ad un supposto amore vero e oggettivo che sta al di fuori del moto delle nostre anime amanti. Quel vero invece non è qualcosa di verificabile in una formula, ma è qualcosa che si costituisce continuamente nel nostro amare, nel continuo innamorarsi, nell’amore vivente.
E questo amore è l’amore stesso che ha il filo-sofo per la verità. E’ l’amore per la bellezza che non posso mai afferrare ma a cui posso partecipare continuando a frequentarla (esattamente lo stesso motivo per cui l’alpinista passa da una cima all’altra).
La bellezza è allora ciò che ci muove. E’ quel desiderio irrefrenabile che lanciato dal dubbio ci deve spingere sempre avanti. E’ il superamento della metafisica come del nichilismo del dubbio arenante. E’ la nostra libertà perché è il nostro far filosofia, è il nostro frequentare la distanza, non per congelarla ma per viverla (e così in qualche modo colmarla).
Certo la bellezza è qualcosa di tragico in quanto mai raggiunto (non bisogna intenderla in modo ingenuo). E’ tragica soprattutto per il nostro continuare a vedere le cose secondo una morale inevitabilmente umana (quindi metafisica), che vorrebbe avere mentre noi soprattutto siamo.
L’importante è quindi andare avanti, vivere il mondo, respirare la bellezza e in questo modo parteciparvi. Amare la bellezza e in questo modo, per un certo verso, abbattere la staticità formale (per quanto sarà possibile). Ciò che credo si debba fare è stare nel rapporto col mondo e con gli altri come l’alpinista sta esposto al vento: con tutta la nostra volontà, senza poterlo giustificare. Continuando il cammino e così vivendo la verità che è nel nostro passo.