La salita è stata più complessa del previsto, soprattutto quando in piena parete nevosa è calato il whiteout. Poi i crepacetti seminascosti dalla neve fresca, la cresta rocciosa di placche bagnate e imbiancate e finalmente la cima.
Ora sono in discesa e ho deciso di scendere lungo la via diretta che attraversa la parete est, però la visibilità è sempre molto ridotta e la via non è segnata. Mi concentro su ogni passo, su ogni passaggio che mi porta lentamente verso il basso. Quando le nubi mi permettono di vedere studio la possibile linea da seguire, per quanto si possa intuire la giusta direzione osservando la parete solo dall’alto.
La neve fresca copre ogni cosa e trovare gli appoggi da essa nascosti è un lavoro delicato e logorante, che richiede estrema attenzione: basterebbe un piede messo male per finire molti metri sotto, spiaccicato sul ghiacciaio sottostante. Bisogna essere cauti, leggeri su ogni appiglio, perché è pieno di pezzi di roccia precari a cui non conviene appendersi con troppa energia.
Progredendo concentrato mi imbatto in quello che temevo: una fascia di placche lisce e verticali alte una quindicina di metri, che mi sbarrano la strada. Le placche sono oltretutto rese fradice dalla neve che da sopra cola in modo impietoso.
Spesso basta poco per farmi innervosire e arrabbiare: una posata che cade, un automobilista che tarda a partire al semaforo, le app del cellulare che chiedono continuamente l’aggiornamento… Ma in montagna tutto è diverso, soprattutto in queste situazioni. C’è un rapporto totalizzante tra me e la parete, qualunque cosa questa realtà gigantesca mi metta davanti.
L’istinto mi guida, trovando il giusto equilibrio con la mia parte razionale, è così anche in questa occasione. Mi muovo lungo le rocce in diagonale, facendo appello alla mia esperienza accumulata in anni di passionale rapporto con il mondo verticale, ho una certa sicurezza e infatti la soluzione arriva guardando alla montagna e danzando con essa.
Il passaggio c’è e lo seguo metro dopo metro: una fessura, un piccolo nevaio pensile, una placchetta un poco più appoggiata, il giusto appiglio là dove ti serve.
Quando tocco la base della parete ritrovandomi sul ghiacciaio guardo verso l’alto alla ricerca della linea che ho seguito per tornare verso il basso. Ma lassù lo spirito della montagna si è già ripreso tutto, avvolgendolo nelle nubi bianche che tornano a turbinare misteriose in una sorta di saluto. Gli rispondo con un cenno del capo e riprendo il mio cammino.
Uscito dal ghiacciaio mi siedo sulle rocce scaldare dal sole, mangio qualcosa, bevo, riappendo l’attrezzatura allo zaino. Sono felice, sinceramente felice. Mi faccio una foto: cerco di immortalare questo pezzetto di autentica felicità. Dalla foto non si capirà mai, ma spero che possa trasmettere quel segreto e quell’armonia che lì è scaturita, perché è nel rapporto totalizzante con la montagna, qualunque cosa questa mi presenti, che io ho imparato a trovare la mia natura più vera ogni volta che ne ho bisogno.
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