giovedì 22 febbraio 2024

Canto di un poeta caduto (il Duca)

Che fine hanno fatto i sogni e le battaglie combattute?

C'era sempre una montagna da scalare, una poesia da scrivere, una verità da indagare. Il desiderio ardente, lanciato come una freccia nel sole, era il motore di ogni azione, tutto era vita, forza, energia, speranza.

Che fine hanno fatto le nottate attorno ad una bottiglia? Con le parole che scorrevano come torrenti in primavera, carichi di acqua vivida e feconda. Le passeggiate senza una meta, a discutere del futuro: come costruirlo? Come lottare per esso, contro il nemico che sarebbe caduto sotto alle nostre idee?

Non si era mai stanchi di mettere un piede davanti all'altro e i sogni correvano dinnanzi a noi. Che fine hanno fatto ora? Che fine abbiamo fatto noi filosofi della bellezza, alpinisti dell'assoluto, rivoluzionari del vivere autentico?

Si lottava contro il nemico, contro la formalità, contro l'incrostazione derivante da significati vuoti e monotoni, lontani dalla creatività del filosofo poeta. Si lottava per la bellezza ad ogni costo, una bellezza infinita, in grado di esplodere e gonfiare la vita. Una bellezza autentica, inafferrabile, ma eternamente presente come l'Essere di Parmenide.

Quella bellezza era tutto per noi, che ogni fine settimana strisciavamo sulle montagne, elevandoci oltre la monotonia del nemico. Si svelavano infiniti mondi, sulle pareti di ghiaccio, nella dolcezza dei fiori, nella ruvidità della roccia.

Veramente tutta quella vivida passione, quella speranza ardente e combattiva, si è rinsecchita? Veramente tutto alla fine si è incrostato precipitando nella stanca insignificanza del mondo dominato dalla formalità? Veramente alla fine il nemico ha trionfato e la nostra lotta, la bellezza respirata, l'autenticità cercata, è finita nel baratro del nulla?

Realmente allora la vita autentica volta alla bellezza è destinata alla disperazione e dunque alla sconfitta? Il desiderio che ha dominato le nostre vite e che ancora spinge nel fondo del cuore, sembra imbrigliato nel nulla della vita formale. E allora ci si sente impotenti, affossati. Con la voglia che si è consumata in una corsa che sembra ormai senza spazio. Realmente ci dobbiamo arrendere definitivamente?

Eppure questa resa risulta a me insopportabile! La mancanza di spazio porta alla rabbia, alla rabbia contro tutto un mondo che si presenta come gabbia bastarda, che tenta di contenere un fuoco che brucia, arde, ma che non riesce più a incendiare. Forse tutto questo si chiama disperazione. Forse questo è il giusto termine.

Il problema è quello già individuato quando ancora le parole scorrevano a fiumi attorno alla bottiglia: come rispondere all'abisso di un desiderio infinito? Ma ancora più complicato è rispondere a questa domanda ora, adesso che la speranza sembra essere pesantemente caduta a terra.

Io riesco solo ad avere una debole consolazione: che almeno quella vita estetica protesa alla bellezza, alla verità, all'autenticità, all'azione, alla lotta, possa risplendere come una tenue luce nella notte attraverso i nostri occhi e i nostri racconti. Ecco perché allora provare a scrivere ancora, ad insegnare, a emanare poesie. Ecco perché provare ancora a lanciare lo sguardo in alto, verso la bellezza, le montagne e il cielo stellato.

venerdì 21 luglio 2023

Riflessione alla base di un camino (il Duca)

 

Seduto alla base di una parete sognata e studiata per tanti mesi, ascolto il silenzio e il freddo del vento che inizia a graffiarmi le ossa.

Il mio mondo è fatto di pietre chiare e neve caduta nella notte; sopra di me il camino nero che avrei dovuto imboccare gronda acqua, soffiando giù aria umida e gelida. Lo guardo un'altra volta, mentre le nubi sottili turbinano sopra di me e lungo i fianchi della montagna. Osservo le placche che luccicano e su cui scorre lenta l'acqua, provo ad immaginare una labile possibilità per superare quei passaggi, ma oggi realisticamente bisogna constatare che è necessario rinunciare.

Un paio di tentativi poco convinti li ho anche già fatti: sia nel camino che sullo spigolo. Laddove la roccia è asciutta è un vero piacere metterci la mano, si può percepire la sua ruvidità che dà sicurezza. Ma per lo più ci si trova ad annaspare sul bagnato.

Sono lì solo, convinto del mio sogno, del mio progetto, ma consapevole di dover dichiarare la resa. Alzo lo sguardo un po' malinconico, un po' dispiaciuto, ma oggi non riesco ad essere incazzato. Non riesco a prendermela con la mia montagna. Lei così grande, bella, eterna, io così testardo ed innamorato di lei.

Mi guardo attorno, tutte le guglie grigie che mi circondano e si innalzano verso il cielo, quei pinnacoli in cui sono racchiusi i miei ideali, o forse qualcosa di ancora più concreto: la mia essenza e la mia storia.

Quest'anno la montagna è con me particolarmente severa, anzi è da due anni che lo è. Tutti i dannati weekend e tutte le volte che posso sono da lei, sempre, in ogni stagione. Di cime ne ho fatte tantissime, di ogni tipo. Ho salito pareti, creste, canali, qualunque tipo di via. Ma da due anni, a parte qualche sporadica eccezione che si può contare sulle dita di una mano, non ho mai trovato condizioni normali. Pioggia, vento forte, pareti che scaricano impietosamente, neve marcia, roccia fradicia... ogni volta c'è da lottare oltre ogni previsione e ci si trova nella situazione di dover decidere se continuare o no.

Questa volta decido di no, è una rarità anche questa. Decido di fermarmi e lo faccio tranquillamente, sedendomi lì su quel ghiaione guardandomi attorno.

Questa volta non proseguo imprecando, urlando i miei vaffanculo alla sfiga, volendo dimostrare che nonostante tutto io se voglio vado avanti. No, questa volta mi fermo e mi guardo attorno, osservo le mie montagne come un bimbo guarda la mamma che lo ha appena sgridato e non capisce bene perché.

La montagna per me è stata tutto. E' la terra a cui appartengo, la casa a cui tornare, il luogo dove ritrovarmi. E' la dura realtà contro cui amo sbattere e danzare ogni qualvolta devo trovare la mia direzione, la mia identità e la mia forza.

E' il mondo dove si sono sviluppate le amicizie più vere, i pensieri più autentici, le consapevolezze più genuine. Io ho bisogno della montagna, ne ho sempre avuto bisogno, fin da quando ho memoria. Se dico “montagna” mi vedo a due anni su un prato che cammino insicuro e ciondolante, sorridendo alla mamma, con dietro i ghiacciai del Cevedale che mi osservano, figlio anche loro. E poi mi vedo con i miei amici a caccia di sogni, dove dietro ad un uno ce n'è sempre un altro: pareti di ghiaccio, spigoli di roccia, crepacci aperti che richiamano l'abisso presente in tutti noi. Mi vedo solo, dall'altra parte del mondo, sotto montagne gigantesche, esotiche, che però nascondono nella loro enormità qualcosa di mio, ed è per questo che sono lì da loro.

Io ho bisogno della montagna perché sono un pezzo di loro e loro custodiscono quella parte intima di me, ecco perché è là che posso ritrovare me stesso.

Penso a tutto questo guardando la parete che mi ha appena respinto, guardando le cime tutte attorno a me che si elevano verso il cielo. Ed è così ancora che mi chiedo: perché, cara montagna, che cosa mi stai dicendo in questi anni con la tua severità?

Vorrei trasmettere tutto quello che la montagna mi ha donato, questo è un desiderio che da un po' bussa forte. Forse la montagna ora me lo sta dicendo anche lei: non ti ho dato tutto questo per trascinartelo nella tomba. Ecco, ora voglio partire da qui.

martedì 3 gennaio 2023

Ho un diavolo in me (il Duca)

Prendo la macchina in questa giornata uggiosa, faccio un giro a Milano e torno indietro. Alla radio c'è poco, passo al CD; parte una canzone di Zucchero Fornaciari. Finisce il brano e inizia quello successivo: “ho un diavolo in me...” Basta questo per riaprirmi un mondo.
So bene quando ho comprato questo disco, so benissimo che cosa richiama questa canzone: la discesa dal Diavolo di Tenda dopo aver scalato la Cresta Baroni in inverno. Un febbraio freddissimo e carico di neve.

La sera precedente con Ale ero salito al Rifugio Calvi e avevamo bivaccato nel locale invernale. Quattro chiacchiere, una cena frugale e un paio di sorsi di grappa. La mattina ci eravamo svegliati che era ancora buio pesto ed eravamo partiti risalendo il vallone alla luce delle nostre frontali. La neve era marmorea, tanto che i nostri sci e le nostre ciaspole risultavano praticamente inutili.
All'alba si stagliava davanti a noi l'elegante profilo dello sperone sud del Diavolo, dove passa la nostra via. Il vento gelido che accompagna i primi chiarori spostava polvere di neve, facendola scivolare sullo strato ghiacciato.
Ci avvicinammo sempre più al colosso, con pochi pensieri in testa ma tanta bellezza addosso, fino a raggiungere la sua propaggine più bassa.
Individuato il canale di attacco, ci legammo, scambiammo due battute e iniziammo a salire.
Le condizioni erano assolutamente invernali, ma la montagna era in buono stato. La neve era dura e sui tratti più verticali c'era un ottimo misto che ci permise di salire in sicurezza: roccia tutto sommato asciutta e ghiaccio ben ramponabile.
Fu una salita esaltante, bellissima, a lungo sognata. La verticalità cresceva sotto di noi, noi seguivamo il filo del nostro sperone riuscendo a proteggere bene con cordini e friend.
Alla fine, quando il pendio si piega lasciando spazio alla cresta sommitale, ci sorprendemmo non vedendo la croce di vetta. Poco dopo constatammo che la croce non c'era perché era completamente sommersa dalla neve, ne uscivano solo pochi centimetri.
In vetta eravamo euforici e da qui, per tutta la discesa, iniziammo in automatico il nostro canticchiare: “ho un diavolo in me, ho un diavolo in me...”. Non ricordavamo tutta la canzone, mancavano pezzi di strofe, ma avevamo voglia di sentirla, di cantarla.
Il giorno dopo uscito dal lavoro andai in libreria e comprai subito il CD.

Ma prima di questo c'è stato un altro Diavolo in invernale, questa volta con Mario, la prima volta in assoluto che ho salito questa montagna. Ora un ricordo tira l'altro.
Era sempre febbraio, faceva sempre un freddo boia e c'era tanta neve, ma in quell'occasione il rifugio era aperto.
Il gestore ci aveva esortati un po' rudemente ad arrivare ad un buon orario, 19/19.30. Considerato che io lavoravo anche di sabato, eravamo praticamente saliti di corsa da Carona al Calvi per non fare tardi, partendo già al buio.
Arrivammo pensando di essere gli ultimi per la cena e invece entrati scoprimmo di essere gli unici clienti: all'interno c'era solo il rifugista e sua moglie. Messi a tavola, ci servirono talmente tanto da mangiare, insistendo anche per il bis e per il tris, che alla fine avevamo dubitato di riuscire ad alzarci il giorno successivo.
Per spiegarci poi la via da seguire, il rifugista ci aveva mostrato la linea su di una cartolina che ci ha lasciato e che io conservo come fosse una reliquia di Marco Polo.
Il giorno dopo fu una gran bella salita, caratterizzata da un vento tremendo che rese la giornata gelida e limpidissima. Senza seguire la cresta della normale, decidemmo di raggiungere la vetta tirando su per la verticale lungo la parete ovest, una scalata con picca e ramponi non difficile ma esaltante.

Il terzo ricordo del Diavolo è sempre con Mario, ma questa volta in autunno, a Novembre e compiendo la traversata dei due Diavoli.
Anche qui serata al rifugio, poi partenza la mattina all'alba, coi colori della stagione che infiammavano tutta la valle. Una cavalcata davvero stupenda, fatta in conserva protetta cercando di mantenere sempre il filo della cresta, alla ricerca di passaggi un po' più pepati e di roccia solida.
Scalata del Diavolino, poi giù per roccette vetrate di ghiaccio, quindi risalita verso la parte finale del Diavolo di Tenda.
Un'altra giornata limpidissima, bella, in amicizia, nel regno di una grande montagna orobica.

giovedì 30 settembre 2021

Stupidamente felice (il Duca)

Scendendo l'ultimo ripido pendio raggiungo finalmente Campo 2, a 5500m, nevica da un'ora e una parte di tenda è già sepolta.
Con le mani e gli scarponi libero l'ingresso, faccio sibilare la cerniera e mi butto dentro, rimanendo lì sdraiato con i piedi di fuori.
I miei pensieri sono stanchi, le idee sono un po' confuse, ma in mezzo alla mia faccia segnata dall'alta quota troneggia un sorriso immenso.
Lentamente mi sfilo i ramponi e gli scarponi e richiudo l'ingresso, lasciando fuori la bufera che si gonfia sempre più cattiva. Butto qua e là le robe sparse nella tenda, mi tolgo dalle spalle lo zaino carico di neve e lo sistemo in un angolo, quindi mi sdraio sul materassino coprendomi col sacco a pelo.
Ho la gola arsa, ma non posso procurarmi liquidi.
Ho la faccia bruciata e ferita e le labbra secche come cartone, ma non posso farci proprio niente.
Ho fame, ma non ho altro che una mezza merendina kazaka, che sa di muffa e di cacao scaduto.
La temperatura sta scendendo velocemente, sento il freddo iniziare a graffiarmi le ossa, anche stanotte toccherà i -30 e dovremo lottare col ghiaccio che si forma sul telo interno.
Eppure, nonostante tutto questo, ho una felicità immensa che mi riempie il petto.
Sono contento, sono totalmente felice, in maniera indescrivibile.
Chiudo gli occhi e ripenso a tutto quello che mi ha portato ad essere qui: gli allenamenti massacranti, le ore per organizzare tutta la spedizione, le giornate infinite su questa gigantesca montagna dall'altra parte del mondo.
Ripenso a quello che ho vissuto oggi, i dubbi alla partenza e l'esaltazione che ho sentito in parete, quando ho trovato ancora una volta la sintonia totale con la montagna. Penso all'abisso che ho percorso, a quelle muraglie infinite di ghiaccio e roccia che ho scalato passo dopo passo, appeso fra le braccia immense del Khan Tengri. Ripenso alla cima, agli ultimi passi prima di toccarla e a quando, dopo tre settimane, mi si è schiuso un altro mondo, un'altra prospettiva.
Sono felice così, lì sdraiato e distrutto in attesa che arrivi anche il mio compagno di cordata.
Sono così follemente ed immensamente felice che scoppio a ridere da solo, come un matto vero. E' una risata muta, è solo un sibilo quello che riesce ad uscire dalla mia gola bruciata, ma è la risata più sincera che mi sia mai capitata.
Perché sono così felice? Così scioccamente felice?
Mi viene in mente la frase del mio caro Platone: “Per chi intraprende cose belle, è bello soffrire, qualsiasi cosa gli tocchi”.
E questa stessa felicità l'ho letta mille volte negli occhi di ognuno dei miei amici, dopo ogni scalata, specialmente le più problematiche. E' una felicità che abbiamo condiviso molte volte senza neppure dovercelo dire. E in fondo... e in fondo quale altro motivo avremmo per vivere, se non per inseguire la bellezza? Per respirare la bellezza e guadagnarci un pezzettino per volta, un passo dopo l'altro, brandelli di autentica felicità?

mercoledì 12 maggio 2021

Grandes Jorasses (il Duca)

Grandes Jorasses, anche solo il nome risuona di mito e leggenda.

Da anni quel nome gira sulle nostre bocche, ma non l'abbiamo mai messa davvero in programma. Troppo difficile azzeccare le giuste condizioni, anche solo per la via normale, per quella che è considerata una delle vie normali più impegnative di tutte le Alpi.

Poi un giorno Lallo mi scrive: “secondo me potrebbe essere la volta buona...” io non esito un istante. Chiamiamo, prenotiamo e si parte.

Seduti su una panchinetta di legno mangiamo i nostri panini al riparo di un larice, mentre la pioggia riempie la Val Ferret. C'è qualche dubbio, ma più forte di tutto c'è la voglia di farcela, ora che siamo qui, ora che abbiamo davvero osato bussare alle porte della grande montagna.

Saliamo verso il Boccalatte e lentamente il velo di pioggia si apre lasciando spazio ad un timido sole. Al rifugio ci troviamo come a casa, davvero. Franco è molto più di un mito, è un rifugista autentico, di quelli che solitamente trovi nelle valli più nascoste e selvagge. Raccogliamo qualche consiglio, un sacco di belle storie e del sano riposo, poi all'una di notte partiamo.

La salita della Grandes Jorasses è impossibile da assaporare, non è una prelibatezza, ma un'abbuffata da fare col fiato sospeso. Camminiamo nel buio totale, seguendo la labile traccia che sale a zig zag per il ghiacciaio, solo a tratti ci accorgiamo degli enormi crepacci che stiamo aggirando.

Raggiunte le rocce Reposoir, dopo il primo tiro di misto, ci togliamo i ramponi e iniziamo la risalita in conserva protetta. A poco a poco i nostri occhi si abituano a cercare nel buio della notte i giusti appigli, guidati dalla debole luce delle nostre frontali. Saliamo bene, ottimamente coordinati: io metto i friend, Lallo li toglie e via, così, verso l'alto.

Giungiamo sulla cima dello sperone che il giorno inizia ad illuminare il mondo attorno a noi: una cascata di seracchi ci divide dal pilone roccioso che scende dalla Whymper. Guardiamo questo universo glaciale immaginando un possibile passaggio: tutto è ancora in penombra, tutto qui è incredibilmente inospitale e allo stesso tempo terribilmente affascinante.

Ripartiamo con estrema cautela, facendo il lungo traverso con il fiato sospeso. Dove il ghiaccio è più insidioso proteggo con una vite, passando poi a metà tra la placca di granito e la lama di neve crostosa. Cerco di trovare nella mia testa tutta la leggerezza possibile da trasmettere al mio corpo. Giungo così alla base delle Rochers Whymper, dove riesco ad attrezzare una buona sosta per recuperare Lallo.

Ora è tempo di tornare ad arrampicare su roccia. Saliamo bene, fino ad affacciarci ancora una volta su di un mondo nuovo: siamo al cospetto del famoso gigantesco seracco pensile, la massa di ghiaccio che regna sovrana tra le due punte principali delle Jorasses.

Ci guardiamo attorno e non abbiamo dubbi sul da farsi: tenteremo di scalare il couloir che sale tra il seracco e le Rochers Whymper, come suggeritoci da Franco.

Iniziamo così la nostra ascesa verso la vetta, l'ultimo capitolo verticale di un viaggio che sembra un mosaico di scalate diverse. Più una saga che un saggio.

Quest'ultimo tratto, inserito nella sezione più pericolosa e fatale dell'intera montagna, è avvolto da un incanto sublime. Ai colpi delle nostre piccozze fa eco il gorgoglio dell'immenso seracco, che alla nostra destra si muove continuamente come un mostro alieno.

Superati una serie di crepaccetti orizzontali e ben nascosti dalla neve, finalmente sbuchiamo in cresta. Davanti a noi, oltre l'enorme cornice che fa da balconata al filo, precipita con una verticalità spaventosa la famosa parete nord, che sembra non finire mai.

Con l'estrema cautela che oggi non dobbiamo mai abbandonare, seguiamo l'affilata cresta fino a toccare la cima della Punta Whymper. Siamo immensamente felici, emozionati lì in piedi sulla vetta, mentre sotto di noi si dispiega il mondo intero. Non osiamo però rilassarci nemmeno per un istante, non ci consideriamo assolutamente arrivati.

Dopo aver scattato qualche foto, come due equilibristi legati alla medesima corda ci muoviamo sul filo di cresta verso la punta Walker. Superiamo qualche saltino di misto, con la vertigine della Parete Nord che non smette mai di richiamarci. Giunti alla sella tra le due cime la dorsale si allarga notevolmente e camminando senza più difficoltà raggiungiamo la vetta più alta delle Jorasses.

Ora sentiamo che ce l'abbiamo fatta per davvero: il regno del Bianco col suo re è tutto attorno a noi, ma più che il paesaggio è la percezione di essere sulla testa di questa montagna mitica che ci riempie il cuore. Non siamo qui come due spettatori, ma come i privilegiati viandanti a cui è stato concesso di inoltrarsi nelle profondità di una terra sacra.

Dopo esserci goduti la vetta in un clima perfetto ed accogliente, iniziamo a malincuore la discesa per la via normale. Vaghiamo per nevai scaldati dal sole e rocce instabili che ci impegnano più di quanto ci aspettavamo. Alla fine giungiamo al ghiacciaio sotto al grande seracco, che attraversiamo a passo spedito. Raggiunte nuovamente le Rochers Whymper ripercorriamo a ritroso la nostra via tornando al Boccalatte e poi a valle.

Qualche ora dopo ci troviamo all'autogrill di Novate a mangiare Hamburger. Attorno a noi diverse famiglie, coppiette, gruppetti di amici e gente sola. Dentro di noi il dono di una montagna immensa e leggendaria che nessuno ci potrà mai togliere: la Grandes Jorasses!

lunedì 9 novembre 2020

La Grande Parete dei Palù (il Duca)

Scendiamo dalla funivia carichi all'inverosimile. Ci sentiamo quasi fuori luogo davanti ad alpinisti e turisti ben ordinati nel loro vestiario; il loro format è perfettamente appropriato, la loro tenuta, il loro bagaglio, il portamento è esattamente conforme al lusso d'alta quota del posto in cui ci troviamo: il Diavolezza.
Noi ci muoviamo ciondolanti e goffi; abbiamo zaini, borsoni, sacchetti di plastica squarciati che dobbiamo tenere accartocciati per non perdere la roba che dentro ristagna in ordine sparso. 
Strisciando lungo la morena ci allontaniamo, quasi fossimo due ladri. Ci abbassiamo verso una bella piazzola circondata da un muretto a secco, da noi scorta nella pietraia a picco sul ghiacciaio sottostante. Qui montiamo la nostra tenda, sotto lo sguardo incuriosito degli ospiti dell'albergo-rifugio, che con discrezione si lasciano distrarre dalle nostre manovre. 
Ci sistemiamo, spargiamo le nostre cose tra pietre e residui di nevai e pian piano diventiamo gli abitanti della valle. Proprio così iniziamo a sentirci, ritrovando sempre più concretamente quell'appartenenza che sembrava avessimo tenuto da parte in attesa di ritrovarci qui. 
Il nostro piccolo accampamento è pronto, apriamo le birre e le patatine che ci siamo portati, come in un rito già predisposto. Adesso, con calma, possiamo dedicarci al nostro compito di oggi: studiare l'oggetto che ci ha mossi fin qui, ammirare il re assoluto di questo luogo, prepararci per l'incontro con quella parete che ci attende da anni: la Nord del Piz Palù. 

Tutto sembra portare in direzione di quella cattedrale scintillante, sorretta dai suoi tre speroni di roccia nera. I suoi seracchi bianchi precipitano verticali, accatastati uno sull'altro, baciati dal sole di inizio luglio che li fa brillare, che li rende abbaglianti. 
Non importa per quale motivo ti trovi al Diavolezza, non importa in che veste, con quali aspettative e con quali progetti. Se sei lì non puoi che guardare a quella montagna e alla sua parete. Lo fa il turista giapponese che scatta foto con il suo enorme teleobiettivo, lo fa la ragazza ben vestita che la osserva con un iniziale scarso interesse, ma che non riesce a toglierle gli occhi di dosso, senza forse neppure sapere che cosa sia. Lo fa il cameriere che lavora al rifugio, che invece la conosce bene e che la guarda fumando intensamente, gettandole addosso tutti i pensieri che gli riempiono il cervello. 
E poi la guardiamo noi, cercando in quella parete la via che abbiamo studiato, che siamo venuti a scalare. Speriamo di riconoscere un segno, di trovare un qualche conforto in quell'enorme tempio la cui realtà (sappiamo bene) sarà sempre altro da quanto ammirato in foto. E' questo un momento intensissimo, lo spazio temporale in cui si cerca di trasporre l'idea, il progetto, nella concretezza di qualcosa che è immensamente altro da te. Qualcosa che però sembra custodire un segreto che è anche il tuo, misteriosamente, fatalmente, intimamente. Una bellezza infinita che ti chiama inesorabilmente. 

E' ancora piena notte quando lasciamo la tenda, ma il buio è riempito dalla luce intensa della luna, che argentata rende tutto fatato e spettrale. 
Le condizioni sono ottime, ma come sempre l'avvicinamento sembra interminabile. Incontriamo qualche rara persona lungo il nostro cammino: una coppia si accinge a sciogliere la neve fuori dalla propria tendina, qualche alpinista sale lentamente per la via normale, una cordata attacca la Kuffner. Noi soli proseguiamo per la sezione più lontana, selvaggia e solitaria della parete: lo sperone Zippert. 
Camminiamo silenziosi, avvolti nell'immensità del ghiacciaio che inizia a tingersi dei colori del mattino; sopra di noi la montagna si innalza spaventosa. Superati i resti di alcuni enormi seracchi crollati, iniziamo a risalire il cono nevoso che fa da trampolino alla nostra via. 
Ci fermiamo a studiare la situazione, lì in piedi sotto alla nostra linea, davanti alla porta del nostro cammino. Ci leghiamo quasi tremolanti, con reverenziale timore. 
Ale fissa la sua piccozza nella superficie dura del manto nevoso, mentre io inizio a strisciare lungo la grossa cornice che fa da ponte sulla crepaccia terminale. Con un passo delicato ma deciso pianto il rampone nel fianco del seracco, ficco le picche al di là della voragine e passo, iniziando a salire verticale verso l'alto. 
E' l'inizio di un viaggio immenso, di una danza estenuante, di una scalata che dura come una vita intera. 
Percorso il lungo couloir tra neve ottima, salti di misto marcio e piccole cascatelle di ghiaccio spaccoso, ci inoltriamo nella sezione più maledetta della parete. Arrampichiamo su roccia coperta da una spanna di neve pesante, dove ogni metro va guadagnato precariamente, grattando i ramponi alla disperata ricerca di un appoggio. Saliamo in diagonale, piazzando qualche rara protezione dal valore prevalentemente psicologico, fino a trovare un passaggio nella grande muraglia verticale che ci sovrasta. 
Avanziamo con alcuni tiri di misto, sempre delicati, sperando di poter finalmente raggiungere l'ultima parte dello sperone, che la nostra relazione descrive come una ripida lama di neve di 300 metri. 
Quando però con un ultimo tiro incerto esco da un camino di roccia marcia, bucando la cornice che fa da tappo al filo dello spigolo, inizio a temere che le rogne non siano ancora finite. Al posto di un'uniforme rampa nevosa, mi trovo infatti davanti una maledettissima processione di merli e contrafforti rocciosi, misti a neve per nulla sicura. 
Non c'è niente da fare, è la montagna a condurre il ballo e tocca a noi adeguarci: d'altronde è questa l'essenza dell'alpinismo. 
Con i nervi sempre più a fil di pelle avanziamo in conserva protetta. A destra la neve è dura, ma il pendio è verticale e non sempre è agevole passare, a sinistra la neve è invece marcia e insidiosa e si stacca in sibilanti slavine ogni volta che proviamo a piazzare un appoggio. In mezzo passiamo noi, superando uno dietro l'altro i salti rocciosi che ci fanno dannare. Ormai sono troppe ore che siamo dentro a questa infernale parete. 
Raggiunta una selletta nevosa decretiamo che non è più il caso di continuare su questo terreno che ci sta rendendo troppo lenti. Così decidiamo di fare quello che ieri ci eravamo promessi di non fare: buttarci sullo scivolo nord est, pericoloso per le valanghe, ma teoricamente più rapido. 
Con un delicato traverso ci portiamo così in piena parete, ma le speranze di una progressione veloce vanno ancora una volta a farsi benedire; mi trovo infatti a tracciare nella neve fradicia che arriva a mezza coscia. Sono esausto, sempre più frequentemente devo appoggiarmi alle picche per rifiatare. Ale mi incita, si propone anche di passare davanti lui, ma sono ormai troppo posseduto da questa parete per poter cedere anche solo un pizzico di questa massacrante sublimità. 
Come se non bastasse le cose iniziano anche a complicarsi, perché più saliamo più ci troviamo ad intersecare colate di ghiaccio vivo e duro come pietra. Sembra un paradosso, io continuo a borbottare, a imprecare passando dall'affondare come fossi nelle sabbie mobili, a piantare viti da ghiaccio come fossimo su una cascata in pieno inverno. Sembra che ogni legge fisica qui non valga, qui vale solo la montagna e le nostre strane idee che ci hanno portato ad infilarci su di qua. 
Più in alto, ormai allo stremo, decidiamo di piegare ancora una volta andando a riprendere il filo dello sperone. La vetta è una cinquantina di metri sopra di noi, ma sembra non arrivare mai. Noi affrontiamo un torrione dopo l'altro, con affanno, senza poterci permettere di perdere neppure per un istante la concentrazione. Continuiamo a ripetercelo: “attenzione, attenzione”. 
Quando con un ultimo passo sbuco oltre l'ultimo salto di misto e vedo solamente una lama di neve compatta tra me e la fine della parete, non riesco a crederci e sento nel cuore un'emozione immensa. Chiamo Ale, grido, mentre lui è impegnato sull'ennesimo passaggio delicato, poi avanzo godendomi quegli ultimi passi come fossero la cosa più bella del mondo, ed in fine, finalmente, eccomi in cima! 
E' strano, è come se improvvisamente mi accorgessi che c'è la luce, che la neve è bianca e il cielo è azzurro. Ale mi raggiunge, ci sediamo a mangiare qualcosina facendo fatica a trovare parole da dire, ma non serve. Qualche cordata ci passa vicino, stanno facendo la traversata delle creste e si complimentano con noi, guardando un po' increduli le nostre tracce che precipitano giù nell'abisso inghiottite dalla parete. 
Iniziamo la discesa il cui primo tratto è in realtà una cavalcata in cresta che ci porta a toccare le tre cime del Palù. Poi giù, giù lungo gli ampi tornanti che aggirano i grandi crepacci. Quando giungiamo finalmente alla nostra tenda siamo dei cadaveri ambulanti: stanchi morti, bruciati dal sole, spossati, quasi fatichiamo ad articolare frasi di senso compiuto. Beviamo tutto quello che abbiamo lasciato al campo: acqua, birra, vino. Poi riguardiamo quella parete, ora che abbiamo recuperato almeno la forza che ci permette di poterlo fare, di poter constatare ancora una volta la bellezza immensa di quel mondo gigantesco.

martedì 14 luglio 2020

Our Shangri-La (Mark Knopfler)

It’s the end of a perfect day
for all the surfer boys and girls
the sun’s dropping down in the bay
and falling off the world
there’s a diamond in the sky
our evening stone in our Shangri-La

Get that fire burning strong
right here and right now
it’s here and then it’s gone
there’s no secret anyhow
we may never love again
to the music of guitars in our Shangri-La

Tonight your beauty burns into my memory
the wheel of heaven turns above us endlessly
this is all the heaven we got
right here where we are in our Shangri-La.

Tonight your beauty burns into my memory
the wheel of heaven turns above us endlessly
this is all the heaven we got
right here where we are in our Shangri-La
in our Shangri-La
in our Shangri-La

venerdì 10 aprile 2020

La Via del Blues (il Duca)

Sdraiato lì sul letto, rinchiuso in casa forzatamente da più di un mese: nervoso, frustrato, incazzato nero.
Le lezioni online di oggi sono finite, ancora sento il fastidio delle cuffie sulle orecchie, ancora sento il fastidio delle solite cose che semplicemente hanno perso la loro fisicità per acutizzarsi nel virtuale.
Dovrei studiare, ma il senso di indefinito, di incertezza, oggi mi ha tolto ogni stimolo, sembra aver appassito persino la mia voglia di fare ciò che mi piace.
Me ne sto semplicemente lì sul letto, irrequieto, all’odiosa ricerca del nulla.
Faccio partire la musica sul mio telefonino, a caso, senza una logica. Il mio amore per il silenzio oggi se ne è andato chissà dove; provo a riempire la testa, ma le note sembrano sorde, sembrano volatizzarsi nel cielo oltre la finestra.
Passa una canzone, poi un'altra; non saprei mai dire quante ne trascorrono, come gli insipidi minuti di queste giornate. Eppure improvvisamente, come una porta che si apre sbattendo, una vibrazione rompe il muro del nulla e dell’odio: un tintinnio di chitarra blues.
Non so neppure che canzone sia, non mi interessa. Non so nemmeno chi la suona, ora non importa. Quella vibrazione mi fa tornare in una macchina tanto tempo fa, con gli amici, le chiacchiere e gli zaini nel bagagliaio.

Il blues era la colonna sonora, la corda che univa viale Corsica al sogno di giornata. Si partiva eccitati, preoccupati, raramente spensierati. A volte incazzati, a volte felici, a volte distratti, ma soprattutto si partiva perché quello era il motivo per cui vivevamo. Non importava se eravamo in due o in cinque, il blues non mancava mai: quel tocco di chitarra era qualcosa di imprescindibile, almeno quanto la piccozza sul ghiaccio e il friend sulla roccia.
Penso a quei momenti, anzi ne sento l’essenza preziosa scorrermi sulla pelle. Sono queste note che riescono a farli vibrare in modo così vivo, sotto anni di altre cose accumulate. Perché non è solo il covid e la carrellata di assurdi decreti ad aver ostacolato la via del blues, già da tempo la corsa si è rallentata.
Parliamoci chiaro: negli ultimi anni ho scalato una marea di montagne, centinaia e centinaia, ovunque: Europa, Asia, America. Ho vissuto esperienze grandiose, momenti stupendi ed esaltanti. Solo pensando all’ultimo anno ho ancora nel cuore la bellezza dello Spigolo dell’Orso, la mitica eleganza dell’Eiger, l’avventura della cresta del Nery, in prima invernale. Non posso che custodire con nostalgia la libertà provata nel regno dell’Ela, il grande viaggio dall’Ararat al mare, la solitaria sulla nord del Mulhacen.
Eppure l’epopea del blues era altro, non dico meglio, ma qualcosa che abbiamo perso dimenticandolo.
Eravamo meno esperti, forse meno forti, certamente meno consapevoli. Però avevamo davanti un ventaglio di sogni tutti ancora da osare, da scoprire. La fantasia correva ancora spaziando verso l’infinto, come un puledro selvaggio lanciato verso l’alba: si andava in montagna freneticamente, ingordi come un affamato che si getta su una tavola imbandita.

E’ inevitabile, si invecchia e le prospettive giustamente cambiano; l’amore evolve dalla passione giovanile alla profondità più consapevole del matrimonio. La montagna è là che ci aspetta, il nostro ossigeno, la nostra dimensione da cui nulla riuscirà a tenerci lontani, costi quel che costi. La nostra casa che ci consente di respirare e di essere vivi. 
Però stasera, sorprendentemente, sono meno incazzato del solito: in questo blues che continua a graffiare ho riscoperto il sangue vivo, il mio sangue più rosso. I miei amici sono a distanza di una telefonata, le montagne sono sempre belle, e noi abbiamo nelle scarpe la stessa storia, in petto il medesimo cuore che batteva sulla strada tra Viale Corsica e i nostri sogni: lungo la via del blues. Stasera sono più forte di tutto, del virus, della gabbia, dell’idiozia dei nostri governanti e della sfiga! Sono ancora vivo col mondo dinnanzi.

venerdì 6 marzo 2020

By My Side (INXS)

In the dark of the night
Those small hours
Uncertain and anxious
I need to call you

Rooms full of strangers
Some call me friend
But I wish you were so close to me

In the dark of night
Those small hours
I drift away
When I'm with you

In the dark of night
By my side
In the dark of night
By my side
I wish you were
I wish you were

Here comes the clown
His face is a wall
No window
No air at all

In the dark of night
Those faces they haunt me
But I wish you were
So close to me

In the dark of night
By my side
In the dark of night
By my side
I wish you were
I wish you were

In the dark of night
By my side
In the dark of night
By my side
I wish you were
I wish you were

In the dark of night
Those faces they haunt me
Well, I wish you were so close to me

Yes I wish you were
By my side

giovedì 5 marzo 2020

Otto bicchieri, una Montagna (il Duca)


Fuori il buio, il silenzio assoluto. Dentro la penombra, con il cameriere sdraiato sul divano che aspetta che finalmente ce ne andiamo a dormire. Sulla terrazza otto persone sedute sotto ad una lampada, attorno ad un tavolo rotondo: otto bicchieri, una bottiglia di whisky mezza piena e due già completamente vuote. Otto storie, otto strade che hanno portato a quel tavolo.
Nel cielo nero come la pece brilla la luna argentata e panciuta, quei raggi vengono riflessi da un biancore perduto tra realtà e mito: le nevi perenni dell'Ararat, la montagna biblica che abbiamo appena scalato.
Abbiamo condiviso da sconosciuti la prima notte in quello stesso albergo, dove semplicemente noi eravamo gli italiani e loro i polacchi. Abbiamo condiviso il pulmino e poi i primi passi e la salita verso il Campo Base. Ogni squadra nella propria piccola tendina, con il vento che alzava la polvere impossessandosi di ogni cosa.
Abbiamo condiviso la tenda mensa dove ogni giorno, pasto dopo pasto, siamo diventati un'unica squadra: noi, i polacchi, gli armeni e i curdi.

La salita dell'Ararat non è una scalata tecnica, per lo più si tratta di saper camminare facendo attenzione al fattore quota. Però è un viaggio affascinante.
Al centro di una pianura arida, dai tratti desertici, s'innalza gigantesco ed imponente il trapezio innevato di questa montagna vulcanica, la cui immagine facilmente spiega l'aurea sacra di cui si è circondata nei secoli, popolo dopo popolo, era dopo era.
Arrivati in macchina fino ai 2100 metri di altitudine, si inizia a salire dolcemente, attraversando conche erbose puntinate da enormi massi neri di origine magmatica. Guadagnando quota il verde lascia sempre più spazio alla sabbia e ai sottili ghiaioni ed è in questo ambiente, su di una costola rocciosa, che abbiamo montato il nostro Campo Base, a circa 3200m sul livello del mare.
La posizione del campo è stata scelta dalle nostre guide curde, ma non è delle migliori, visto che siamo bersagliati da un vento incessante che continuamente riempie le tende e tutta la nostra attrezzatura di una sabbia rossiccia. Così, mentre ci aggiriamo tra i cavalli e i sacchi di iuta ammucchiati, guardiamo con un po' di invidia i russi che si sono accampati poco più sotto, su di un bucolico praticello protetto dal vento.
Il giorno successivo iniziamo a perdere i primi componenti della spedizione: alcuni armeni non sono stati bene durante la notte e abbandonano il Campo Base tornando a valle. Noi altri, rimessi insieme armi e bagagli, partiamo con tutta calma per il Campo 1.
Il terreno si fa sempre più arido e questa volta si sale per una traccia ripida: in linea d'aria siamo molto sotto alla montagna la cui cima s'innalza duemila metri sopra di noi, ora si tratta di guadagnare quota. La marcia è molto lenta per favorire un buon acclimatamento.
Nel primo pomeriggio montiamo il campo a 4150m, sospeso su di un ripido ghiaione che precipita appena sotto alla nostra piazzola. Ci rilassiamo nella tendina, in attesa della cena e dell'assalto finale alla vetta.
Verso mezzanotte ci ritroviamo tutti insieme nella tenda comune dove beviamo del brodo caldo e mangiamo qualcosa. Poi si parte nuovamente verso l'alto.
La notte è nera come la pece, noi saliamo lungo una costola di roccia e sabbia spazzata dal vento. La marcia è ancora più lenta del giorno precedente e per noi italiani e i polacchi è una vera tortura, dato che siamo tutti allenati e ben acclimatati. Diversi armeni però non sono per niente in forma e strada facendo li perdiamo un po' per volta.
Per loro è una delusione immensa e scendendo fanno fatica a trattenere le lacrime: per il popolo armeno l'Ararat è infatti una montagna sacra e la sua salita è più un pellegrinaggio che non una spedizione alpinistica, ma purtroppo sottovalutando quest'ultimo aspetto si trovano a fare i conti con un ostacolo che per alcuni diventa insormontabile.
Perdiamo anche uno dei polacchi, che a causa di un problema agli occhi decide di rinunciare e di ritornare al campo.
Il freddo è intenso e la lentezza della marcia lo rende ancora più penetrante e gravoso. Ma Metin (il capo delle guide curde) insiste perché il gruppo rimanga unito.
Arrivati però all'imbocco del ghiacciaio, dove inizia anche ad albeggiare, Metin non ci tiene più: messi i ramponi, con i polacchi partiamo a spron battuto verso la cima. La neve è ottima e i raggi di sole che si allungano sui ghiacci perenni della montagna sembrano spingerci in direzione della vetta. Un ultimo strappo e finalmente tocchiamo il punto più alto dell’Ararat, felici e commossi.
Sono le 6:00, siamo a 5137m e tutto attorno si apre l'orizzonte delle pianure armene, iraniane e curde, che lentamente vengono conquistate dalla luce del nuovo giorno. Noi stiamo lì in piedi con addosso un'emozione unica, tra il sacro e il profano.
La discesa è lunga, ma questa volta ognuno se la gestisce come meglio crede. Dopo una lunga sosta al Campo 1, con sonnellino annesso, smontiamo tutto e scendiamo al Campo Base, dove ogni squadra si monta la propria tenda.
Il clima è quello della festa, la spedizione è prossima alla conclusione e si può assaporare la bellezza di essersi realizzati. Ed è ancora più bello la sera successiva, quando questa realizzazione la si condivide: con delle bottiglie di whisky, attorno ad un tavolo rotondo, sotto ad una lampada dove otto strade si intrecciano tutte assieme, per l'ultima volta.