venerdì 28 agosto 2015

Stok Kangri, la cima donata (il Duca)

E’ strano ripensare a come fosse notte. Tornando con la memoria a quel momento ricordo la luce. E non quella fioca della frontale che illuminava i miei passi, ma quella potente della luna che nel cielo brillava come un faro d’argento.
Quei momenti rimangono profondi nel mio cuore, carichi di una commozione enorme che diventa impossibile riportare in parole. Ricordo quando, alzando lo sguardo dalla cresta nevosa, ho scorto la cornice sommitale della mia cima. Compiuti gli ultimi passi, finalmente ho raggiunto le bandierine della vetta, le quali, a differenza che nelle foto visionate cento volte, erano quasi totalmente sepolte dalla neve.
Ho stretto la mano a Stanzin, poi ci siamo abbracciati. Lui esultava come un matto e quando gli ho detto che erano solo le 4:50 ha iniziato a ringraziare gli dei, gridando al record. Ma ciò che lo rendeva ancora più orgoglioso era il fatto che da una settimana nessuno era ancora riuscito a raggiungere la cima, nonostante i numerosi tentativi delle molte spedizioni.
Mentre lui faceva foto e urlava festoso, io mi sono raccolto in me stesso. Il cielo nero veniva continuamente rigato dalle stelle cadenti, mentre le montagne del Ladakh si stendevano attorno a me. Una grandissima gioia mi ha colto, costringendomi a guardarmi indietro:
“Che ci faccio qui, in mezzo all’Asia, sulla cima di una montagna di oltre 6000 metri? Come ci sono arrivato?”
Così ho ripensato a tutte le difficoltà e le incertezze dei giorni precedenti: la pioggia che continuava a cadere ed io incazzato, affacciato alla finestra a Leh. I fiumi gonfi e i cavalli che non riuscivano a passare. Le voci che raccontavano di quantità spaventose di neve.
Ho ripensato a tutta l’organizzazione, a come era stata brava la Cinzia a mettere giù tutto bene, dandomi la possibilità di arrivare in vetta. Ho ripensato agli allenamenti, alle spese, al lungo viaggio.
Ma il viaggio non era partito da così vicino, tutto aveva preso piede molto più in là.
Mi è allora venuta in mente la prima volta che ho fatto la Grignetta, quando avevo 4 anni, con mio papà. Poi le cime più alte, il primo ghiacciaio a 11 anni per arrivare in cima all’Adamello. Ho ripensato alle scorazzate con Ciccio e poi con Lucia, alle scalate solitarie, a quelle con Mario, Lallo, Prina, Ale. Alla spedizione in Kazakhistan con Claudio e a quella sul Rwenzori con la banda del Gus.
Ho ricordato le mie valli, la val di Rhemes, la valle del Tonolini. La conca dei Giganti, con le grandi cime orobiche che si specchiano nel lago di Coca.
Ho ringraziato; perché l’uomo può metterci la buona volontà, ma poi ci si rende conto che certe cose non ce le si guadagna da soli, in nessun modo.
Ero commosso su quella cima, proprio così. Con questa consapevolezza ben impressa nel cuore; mentre con lo zaino incrostato di ghiaccio osservavo l’alba spaccare l’orizzonte, con l’Himalaya e il mio sogno tutto attorno a me.