giovedì 31 ottobre 2019

Eiger (il Duca)

Mi sembra di essere in un film, in una cartolina guardata mille volte, mentre il treno faticosamente sale lento verso l'alto. Provo ad immaginare cosa pensassero Heckmair, Aste, Ueli Steck e tanti altri salendo lungo questi binari, con i prati verdi da una parte e le nubi che avvolgono il mostro dall'altra.
Lallo è seduto davanti a me con il suo zaino e lo sguardo oltre il vetro del finestrino. Io non riesco a stare fermo, dopo anni di attesa sono davvero su questo treno e voglio cercare di raccogliere il più possibile, ogni minima sensazione.
Mi allungo a guardare per l'ennesima volta fuori: le nubi si alzano veloci, la parete si mostra pezzo dopo pezzo, eccola! Gigantesca, più di quanto si possa immaginare, imponente, così carica di mito che il cuore ti balza in gola e non puoi fare altro che incollarle gli occhi addosso.
Il treno sale, entra nella montagna e poi si ferma dove tutti scendono. La maggior parte si butta verso le enormi vetrate ad ammirare l'Oberland, i suoi ghiacciai e le sue montagne, dal suo osservatorio più famoso. Noi soli stiamo in disparte ad attendere.
Il capo treno chiama, tutti sciabattando tornano sulle vetture, poi, preceduto dallo stridore della cremagliera e dal cigolio del treno che riparte, cala il silenzio assoluto. Ora siamo da soli, come complottisti nella stazioncina del treno. Vaghiamo un po' per le gallerie nella pancia dell'Orco, spalanchiamo una porta di legno e procediamo al buoi, a tentoni. Una seconda porta e la luce accecante del mondo esterno ci colpisce.
Mi sembra ancora di essere in un film, di essere in quella cartolina guardata mille volte. Ma ora la roccia del grande protagonista è davvero sotto ai miei scarponi e le mie dita ci scorrono davvero sopra, toccandone la ruvida essenza. Facciamo una prima calata oltre il grande crepaccio terminale, siamo intorbiditi dal trovarci avvolti da questo alone mitico. Una tremenda scarica di sassi fischia a qualche metro da noi, è questa la nostra terribile sveglia... ora lo sappiamo: l'Eiger è reale più che mai!

La sera al rifugio cerco di rilassarmi, ne ho una gran voglia e aspettavo questo momento; ma è impossibile con quella montagna che incombe là fuori. Continuo ad uscire a guardarla, a scrutare le nubi che la avvolgono. Ricerco qualcosa là dentro, dentro a quei profili di roccia incrostati di neve e ghiaccio, dentro a quelle linee verticali e terribili, sognate così a lungo.
Tutto poi si spiega lentamente, il giorno dopo. Partiamo con il buio e i primi passi, seppur semplici, sono incerti. Poi a mano a mano che si va avanti, che saliamo come formichine sulle spalle del gigante, il rapporto con quella montagna si consolida. Ad ogni appiglio, ad ogni passaggio, ad ogni decisione sulla linea da seguire, entra in gioco tutta l'esperienza accumulata negli anni. E' come se nel corso nella scalata, su per quella montagna fredda e leggendaria, ritrovassi i pezzi della mia vita, me stesso, le mie certezze che troppe volte sfuggono.
Salgo verticale e sicuro: i ramponi si incastrano perfettamente nelle crepe della roccia, le mani godono nel tocco gelido della pietra vetrata; io mi chino a guardare sorridente Lallo, che sotto di me avanza sulla lama sottile, venendomi dietro. Siamo una cordata sulla linea del nostro sogno comune, siamo uniti in questo desiderio concreto, sono felice come un bambino a Natale!
Arrivati in cima ci stringiamo la mano e ci complimentiamo. Non ci sono le urla di esultanza che ci si potrebbe aspettare su di una vetta corteggiata per anni. Ci sediamo in silenzio, uno accanto all'altro, sulle pietre della cima. Il vento gelido ci soffia in faccia, mentre noi ne ce stiamo lì, sereni e beati come due uomini in cima all'Eiger.

martedì 29 ottobre 2019

Elogio della Pioggia (il Duca)


Seduto qui, al mio tavolo avvolto nel silenzio, ascolto la pioggia tintinnare sul lucernario.
La pioggia batte, le gocce strisciano sul vetro riflettendo la luce grigia che appena si rispecchia sull'acqua. E insieme alla luce si rispecchiano i miei pensieri e i miei ricordi: torbidi, lontani, alla disperata ricerca di riemergere dal passato.

Ed è la pioggia: la pioggia ricca di profumi, come quella osservata rintanati in una baita che sa di stalla. La porta di legno annerita e il tetto di ardesia. Quei prati verde scuro che si arrampicano sui fianchi della montagna, gonfi d'acqua, avvolti dalle nubi bianche e fumose. Noi dentro alla baracca bagnati fino al midollo, con ancora gli impermeabili addosso che gocciolano pesantemente. Noi dentro alla baita felici, nonostante la pioggia; felici di essere qui con un pezzo di formaggio in mano, anch'esso fradicio: ma chi se ne frega!
La pioggia che sa rincorrerti, come quando spazza i ripidi fianchi del Rosa, portandosi via la neve e lasciando il ghiacciaio nero. Noi che scappiamo con le picche in mano, increduli di trovare acqua in alta quota. Quella pioggia che ti fa scivolare, ti dà velocità facendoti bruciare le mani sulle lastre di ghiaccio. E poi arrivi a valle sfatto, bagnato, sanguinante e stupidamente felice, perché nonostante tutto anche quella volta l'hai scampata; nonostante la pioggia che ora batte innocua sul parabrezza della macchina.
La pioggia che sa essere martellante, fino a quando ti educa, fino a farti abituate al suo tocco bagnato. Fino a diventare una compagna accettabile, come là sul Rwenzori.
La pioggia che sa cantare melodie frusciando tra le foglie degli alberi, invadendo con dolcezza la magia delicata del bosco; danzando con i timidi raggi di luce.
La pioggia che è un padrone freddo e tiranno. Che si impone nonostante i piani perfetti, che inzuppa le corde, impregna la ferraglia, si impossessa dell'umore e di tutto quanto può contenere uno zaino. E poi si mangia anche la roccia e gonfia i torrenti e cristallizza sui muschi con bellezza assoluta.
La pioggia che ti inchioda nel bivacco e decide che è il tuo giorno di riposo. Volente o nolente crea un muro tra te e il mondo ostile, proteggendoti, cullandoti e restituendoti poi felice, ancora una volta, misteriosamente.

La pioggia che picchietta su questo lucernario, che io lo voglia o no, perché nessuno ci può fare proprio niente. Perché la pioggia cade, nonostante tutto: sta a noi saper cogliere il profondo incanto che si porta dietro.

giovedì 8 agosto 2019

The Promised Land (Bruce Springsteen)

On a rattlesnake speedway in the Utah desert
I pick up my money and head back into town
Driving cross the Waynesboro county line
I got the radio on and I'm just killing time
Working all day in my daddy's garage
Driving all night, chasing some mirage
Pretty soon little girl I'm gonna take charge

The dogs on main street howl
'Cause they understand
If I could take one moment into my hands
Mister, I ain't a boy, no, I'm a man
And I believe in a promised land

I've done my best to live the right way
I get up every morning and go to work each day
But your eyes go blind and your blood runs cold
Sometimes I feel so weak I just want to explode
Explode and tear this old town apart
Take a knife and cut this pain from my heart
Find somebody itching for something to start

The dogs on main street howl
'Cause they understand
If I could reach one moment into my hands
Mister, I ain't a boy, no, I'm a man
And I believe in a promised land

Well there's a dark cloud rising from the desert floor
I packed my bags and I'm heading straight into the storm
Gonna be a twister to blow everything down
That ain't got the faith to stand its ground
Blow away the dreams that tear you apart
Blow away the dreams that break your heart
Blow away the lies that leave you nothing but lost and brokenhearted

The dogs on main street howl
'Cause they understand
If I could take one moment into my hands
Mister, I ain't a boy, no, I'm a man
And I believe in a promised land
And I believe in a promised land
And I believe in a promised land

martedì 2 luglio 2019

Monte Gruf - Nuova Via (il Duca)


Via molto logica da noi inventata sul versante nord del Monte Gruf. 
La linea segue l’estetico sperone a destra del canalone della Valle Piotta (meglio conosciuto come “Canalone dell’Aurosina”), sbucando ad una spalla (2830m ca) tra la bocchetta di Val Piana e la cima del Gruf. 
Dopo un primo sopralluogo effettuato a settembre, abbiamo deciso di bivaccare direttamente ai piedi dello sperone. L’avvicinamento è lungo e da cercare: lasciata l’auto a Pian Cantone (termine della strada), si imbocca il sentiero per Tabiadascio. Raggiunto l’alpeggio, si prosegue seguendo le indicazioni per il bivacco Garzonedo. 
Dove il sentiero piega decisamente ad ovest, lo si abbandona, attraversando senza traccia il greto del torrente. Ci si dirige così verso la profonda faglia sovrastata dal canalone dell’Aurosina. 
All’imbocco della faglia, sulla destra, ci sono delle staffe nella roccia, che consentono di guadagnare una traccia quasi del tutto cancellata. Seguendo la traccia, prima nel bosco, poi tra rododendri e mughi, si raggiunge la conca morenica tra il Gruf e il Sasso Becché, passando prima dall’alpe Penz. 
Sulla morena non ci sono tracciati, ma si vede già bene l’evidente sperone su cui si sviluppa la via. 

RELAZIONE: 
L’attacco è nei pressi di un diedro appena a sinistra della propaggine più bassa dello sperone. Qui noi abbiamo effettuato 4 tiri: 
L1: Si risale il diedro verticale ma ben appigliato, per poi proseguire su placche appoggiate fino all’imbocco di un canale obliquo. Sosta su spuntone. 
L2: Si segue l’evidente canale, con roccia non sempre buona, fino al suo termine. Sosta su friend. 
L3: Si punta al filo dello spigolo, risalendo le placche a tratti strapiombanti, seguendo una linea che piega leggermente a sinistra. Sosta appesa su spuntone, appena sotto ad un ultimo muretto verticale. 
L4: Superato il muretto con un passo lungo, si segue una provvidenziale cengia, che piegando a destra consente di guadagnare la sommità dello sperone. 
Si prosegue in conserva protetta, cercando di rimanere il più possibile sul filo dello spigolo, dove la roccia è solida e bella. Da qui in poi si riesce a proteggere molto bene con friend e cordini. A tratti l’arrampicata è molto esposta, fare sempre attenzione alla tenuta di appigli e appoggi. 
Lungo la cavalcata in cresta si incrociano diversi torrioni. Conviene sempre scavalcarli direttamente, effettuando eventualmente qualche tiro. L’unico torrione che abbiamo aggirato è l’ultimo, che si riconosce perché è preceduto da una profonda spaccatura. Qui siamo scesi delicatamente sulla destra, per poi risalire un diedro erboso obliquo e riguadagnare il filo dello spigolo con un tiro verticale su roccia ottima. 
Dopo l’ultimo torrione si sale decisamente, con percorso sempre logico lungo lo spigolo, spesso agevolato da comode cenge appena a sinistra del filo. Si arriva così a sbucare sulla cresta sommitale, che si percorre su blocchi rocciosi fino all’omino di vetta (dall’attacco alla cima ci abbiamo impiegato 6 ore). 

DISCESA: 
Scendendo a sud lungo la pietraia si guadagna una larga cengia, attraversata da qualche nevaio, che consente di raggiungere la bocchetta di Val Piana. Da qui si scende lungo il canalone dell’Aurosina, che dopo i primi metri molto ripidi si assesta sui 45 gradi, permettendo di scendere bene fino alla base della parete del Gruf. 

NOTA: 
Non ci sono relazioni della salita di questo sperone, da noi battezzato SPIGOLO DELL'ORSO. Dunque, con tutta probabilità, si tratta di una via nuova aperta da me e da Ale.

FOTO:







mercoledì 5 giugno 2019

Ghiaccio, Roccia, Mare (il Duca)

Procedo nel buio intenso, seguendo le ombre scure che appena si notano nella notte.
La neve è dura, gli scarponi scricchiolano ad ogni passo procedendo dietro all'intuito. Si percepisce lo spazio aperto della vallata, col leggero vento freddo che la percorre.
Arrivo al passo, mi fermo precipitando in un silenzio assoluto, dove persino i pensieri fanno fatica a sussurrare. Ed è qui, in questo immenso buio muto, che la luna irrompe con i suoi raggi argentati, sorgendo dalla punta del Mulhacen, rotonda come uno specchio. Quella luce pallida si allunga, conquista tutto, come uno spettro che scendendo dalla cima della montagna striscia in ogni piega del mondo.
Mi allungo anch'io, verso la mia parete che si innalza nella notte ancora intensa, la notte profonda del versante nord.
A raccogliere i riflessi della luna lì è solo il ghiaccio: colate gelide che incrostano i precipizi di roccia, con i loro speroni e colatoi verticali. Quel gelo sembra penetrare direttamente nelle mie ossa, quella parete sembra ora troppo spettrale per tentarla per davvero.
Eppure, con la paura che si insinua nel cuore, con il senso di impossibile che bussa nel cervello, non ci si ferma. E' strano, l'attrazione per quella parete non lascia facoltà di fermarsi, a volte ci si sente quasi condannati, a volte è solo così che si va avanti. Come quando si è innamorati.

Coi ramponi buco la cornice e inizio a calarmi, scendendo nel buio lungo i fianchi di neve dura. Le picche tengono bene, sono sul ripido eppure mi danno una sicurezza incredibile. Arrivo alla fine del pendio ed inizio a costeggiare la base della parete alla ricerca della sua verticale; ho in testa esattamente dove attaccare, adesso sento il mio passo sicuro e penso solo alla bellezza che mi aspetta, alla mia scalata.

Salgo, salgo sempre. Sono veloce, molto più di quanto riesca a rendermene conto. Supero diverse colate di ghiaccio vivo e senza fermarmi procedo verso l'alto. E' come se avessi addosso una fretta maledetta, la voglia di godermi tutto quello che la mia parete racchiude, senza perdere tempo.
Raggiunta la strozzatura, al posto di aggirarla sulla destra, la attacco direttamente, scalando un delicato passaggio di misto con roccia sporca di neve fresca.
Ora traccio nella povere fonda, in una grande conca all'ombra della vetta. Non punto alla spalla, a nessuna delle uscite laterali, ma ad una camino che mi sembra la giusta risposta a questa mia danza con la montagna. E' una ricerca intima, all'interno delle pieghe della parete, la ricerca di qualcosa che mi corrisponde.
All'attacco del camino trovo un chiodo, il segno che qualcuno da qui è già passato, lo prendo come una conferma. Salgo, la pietra intrappola un po' di sole, è la prima volta che oggi lo tocco. Afferro un ultimo pezzo di roccia ed ecco che mi ritrovo sulla cresta sommitale.
Non mi fermo, non ora, non ancora. Procedo lungo il bordo della parete in modo ancora frenetico, salgo attendendo quello che ad un certo punto trovo: il punto massimo della mia montagna, la cima. Ci sono!
Ecco, adesso sì che guardo l'orizzonte. Alzo lo sguardo in direzione opposta a quella da cui sono sbucato, dall'altra parte rispetto ai precipizi di roccia e ghiaccio, neve e ombra. E dall'altra parte c'è il miracolo di questa montagna: il blu del mare e i dolci profili delle sue spiagge. E' un miraggio, una visione commovente, o più semplicemente la bellezza di un respiro di sollievo.

mercoledì 10 aprile 2019

Nery Cresta Sud: prima invernale (il Duca)

La prima volta che gli abbiamo messo gli occhi addosso è stato in un caldo gennaio, durante una scalata invernale nel biellese. L'imponente piramide si innalzava davanti a noi, bella ed elegante, con le sue rocce nere miste alla neve bianchissima. Un uomo ce ne svelò il nome: “quello è il Mont Nery!”.
A fine inverno partimmo per salirlo, con un'idea alternativa; ma la mancanza del sentiero ci fece arenare nel bosco. Io non ci tornai più per diversi anni, mentre per Ale divenne una vera e propria ossessione. Lo tentò molte volte, dando sfogo alla sua fantasia, sempre alla ricerca di una soluzione originale per raggiungerne la cima.
Alla fine lo scalò dal canale nord-ovest, ma scendendo fu attratto da uno sperone logico e selvaggio che dalla cima precipita a sud verso il bivacco Cravetto.
Si informò e scoprì che si trattava della Cresta Sud, via dimenticata e quasi mai ripetuta: l'obbiettivo perfetto per le sue fantasie esplorative! Condivise la scoperta con Mario, che lo attendeva al bivacco, il quale me ne parlò entusiasta. Sapeva il potere seduttivo che una tale idea avrebbe esercitato su di me, e ci azzeccò!
Iniziammo a mettere a fuoco l'obbiettivo, studiando le foto fatte da Ale e quelle poche trovate in internet. A guardare bene più che una cresta la via percorre uno sperone vero e proprio, che parte verticale al centro della parete, per poi continuare con una serie di torrioni fino alla cresta sommitale. Alla fine ci esaltammo e rilanciammo ulteriormente: “proviamola, ma proviamola in pieno inverno!”.
Non c'erano testimonianze della Cresta Sud salita nella stagione più fredda, quindi, con tutta probabilità, la nostra sarebbe stata la prima invernale: la prospettiva era davvero ghiotta!
Mario si sfilò dall'idea, pur continuando a sostenerci. Io e Ale la inserimmo invece in cima alla nostra affollata lista dei sogni.

Gennaio, fa freddo e non nevica da un po': decidiamo che si può provare. Qualche giorno prima scaliamo la cresta di Canabà sul monte Cresto, per farci un'idea delle condizioni. Poi partiamo, seppure con qualche dubbio.
Si fa colazione scherzando al bar, circondati dagli sciatori diretti a Gressoney. Poi si abbandonano le terre degli uomini per salire verso il selvaggio regno del Nery. Superiamo i 1500 metri di dislivello per raggiungere il bivacco, trovando neve continua dai 1800m in su. Ma arrivati nei pressi del Cravetto scopriamo che il meritato riposo va ancora guadagnato: il bivacco è infatti completamente sommerso dalla neve, esclusa una piccola porzione di tetto (col pannello solare).
Iniziamo a scavare, prima per liberare la struttura principale, poi per entrare nella legnaia da dove azionare la bombola del gas.
Alla fine riusciamo a sistemarci bene nel bivacco, ma dobbiamo rinunciare al giro di perlustrazione sotto allo sperone. Poco male, una cena calda e lo scoppiettio della stufa ci fanno sentire bene come pascià.

Ci svegliamo che è buio pesto, prepariamo la colazione, siamo concentrati; abbiamo dormito bene e facciamo tutto con calma. Quando usciamo dal bivacco ci accoglie il freddo intenso dell'inverno, accentuato dal vento che seppur leggero è penetrante.
Il nostro sperone è già illuminato da un sole poco intenso che gli infonde la magia tipica dei sogni. Partiamo guardandolo, col rispetto riservato ad un incontro tanto atteso.
Facciamo un lungo traverso su neve buona, che si sposa perfettamente con i nostri ramponi. Si procede rapidamente senza perdere quota, sappiamo esattamente dove andare, anche se ogni nostro movimento è la ricerca di una conferma.
Aggirato lo spigolo dello sperone ci affacciamo sul suo versante est, dove troviamo un canale che si impenna incuneandosi fra le rocce. Avevamo intuito la sua presenza, ma solo ora abbiamo la sicurezza della sua esistenza. Lo risaliamo picche in mano, tracciando nella neve poco portante, fino a guadagnare una spalla dello sperone. Qui ci leghiamo; sotto di noi, nella valle innevata, inizia a stagliarsi l'ombra elegante della nostra cresta.
Procediamo in conserva protetta, prevalentemente su roccia. Sappiamo che dobbiamo seguire il filo dello sperone, ma la linea non è obbligata e si cerca sempre il passaggio migliore.
Iniziamo a fare qualche tiro, alternandoci in testa, viaggiando su terreno misto e vario, che però permette sempre di proteggere bene, soprattutto coi friend. Certo bisogna saper leggere la montagna ad ogni passo, ma proprio questo è il bello!
Sbuchiamo infine ad una selletta nevosa, sovrastata da una paretina verticale che al centro presenta una linea di neve dura, interrotta a metà. La superiamo con un bel tiro di corda, guadagnando la base di un torrione giallo che segna la fine della prima parte della via.

Ora bisogna trovare come superare il torrione giallo strapiombante, così da accedere al grande nevaio superiore. A destra la parete precipita rocciosa e perpendicolare per centinaia di metri. Proviamo allora a sinistra, disarrampicando su alcune placche rocciose sporche di neve, fino a raggiungere una cengia di crosta delicata che ci permette di arrivare al grande nevaio.
La scarna relazione che abbiamo con noi indica che ora dovremmo traversare a sinistra, per uscire sulla spalla della montagna. Ma senza neppure discuterne decidiamo di perseguire nella nostra idea: procedere su dritti, rimanendo il più fedeli possibili allo sperone. Così, con un paio di tiri, ci ritroviamo a pistare nella neve fonda verso la parte alta del Nery.
Siamo meno impegnati a cercare la via e ci guardiamo attorno, mentre risaliamo il ripido pendio. E' come se improvvisamente ci rendessimo conto dell'immensa bellezza in cui ci troviamo immersi, riuscendo a distaccarci dalla nostra scalata.
Arrivati ad una sella, doppiamo il filo della cresta e puntiamo ad un canalino che porta in alto verso il blu del cielo. Il canalino si incunea sui 60 gradi, di neve e ghiaccio buono; lo superiamo senza problemi, lavorando di ramponi e piccozze, e sbuchiamo così oltre la cornice. Ci accorgiamo però che la cima è tutt'altro che vicina.
Facciamo l'ennesimo tiro su neve sfondosa, un breve traverso su di una placchetta delicata e poi risaliamo un altro colatoio ghiacciato. Ormai attendiamo solo di poter finalmente scorgere la vetta e constatare che non c'è più nulla da salire.
Avanziamo in conserva lungo il fianco della cresta sommitale, tracciando nella neve alta, finché, con un ultimo faticoso passo, eccoci solcare l'antecima nord. Il vento ci graffia la faccia, la cima vera e propria è a pochi metri da noi, facciamo quasi fatica a credere che sia veramente lì.
Quegli ultimi passi sulla cresta nevosa, prima di toccare il punto più alto del Nery, sono carichi di un'intensità profonda. Ci sentiamo leggeri, investiti improvvisamente da una gioia incontenibile.
Arrivati in vetta ci abbracciamo emozionati, con l'aria gelida che danza insieme noi, portando con sé tutta la nostra felicità.

Fa freddo per stare troppo in cima, iniziamo così a scendere. Percorriamo la cresta Ovest che d'inverno non è banale e presenta enormi cornici, poi trotterellando per il pendio di neve rientriamo al bivacco.
Mentre le ombre della sera ci investono, poco prima di raggiungere la macchina, non troviamo molto da dire; l'avventura sta per finire, ma la magia di un sogno realizzato rimane come una luce profonda, un ardore di bellezza che ci sa accompagnare anche lontani dalle nostre montagne.

giovedì 28 marzo 2019

They Call Me the Breeze (Eric Clapton)

They call me the breeze,
I keep rolling down the road
They call me the breeze,
I keep blowing down the road
I ain't got me nobody,
I ain't carrying me no load

Ain't no change in the weather,
Ain't no change in me
Ain't no change in the weather,
Ain't no change in me

I ain't hidin' from nobody,
Ain't nobody hidin' from me

I got that green light, babe,
I got to keep moving on
I got that green light, babe,
I got to keep moving on
I might go out to California,
Might go to Georgia, I don't know

They call me the breeze,
'Cause I keep rolling down the road
They call me the breeze,
'Cause I keep rolling down the road
I ain't got me nobody,
I ain't carrying me no load.

giovedì 17 gennaio 2019

Il Manichino (il Duca)

Si fermò all'improvviso, arrestando il suo passo, e guardò dritto dentro alla vetrina.
Chi lo notò per caso, tra la gente che gli passava attorno, ebbe l'impressione di trovarsi difronte ad uno squilibrato (o a un qualche visionario) e tirò dritto come gli altri.
Lui vide il manichino dall'aspetto giovane e sensuale, seppure immobile e fasullo, e lo guardò con la stessa inquieta espressione con cui guardava le sue colleghe di lavoro.
Non sapeva che farsene di un manichino, non avrebbe mai pensato di comprarne uno, però in qualche modo quella persona finta lo affascinava, ma forse se ne rese conto veramente solo in quel momento.
Il manichino era una figura femminile, gambe lunghe e seno abbondante, il tutto contornato da un vestitino rosso che risaltava il bianco della plastica. Non aveva nemmeno la parrucca, ma due lunghe ciglia che le coronavano gli occhi spenti.
Rimase li a fissare dentro alla vetrina, assorto nella sua visione poco inusuale, che però quel giorno era riuscita a stupirlo. Rivangava nel cervello come alla ricerca di un qualche pensiero, una congettura che gli svelasse il significato di quel suo curioso interessamento.
Pensando perse il punto focale del manichino e come in un film gli occhi si assettarono sul vetro della vetrina, che come uno specchio rifletteva l'altro lato della strada.
Ora guardava l'immagine proiettata di un uomo che sedeva su di una panchina; forse era alla fermata di un autobus. L'uomo era vecchio, o così almeno appariva ad una prima occhiata, portava una giacca marrone forse un po' troppo oltre la sua taglia e la barba era malfatta. E poi indossava dei jeans che, non so perché, definirei trasandati.
Trasandato, ecco, questo era il tratto caratteristico dell'uomo seduto sulla panchina, era il tratto che lo distingueva nettamente dal manichino dall'altra parte del vetro.
Oltre al vetro una donna finta, perfettamente incarnante il suo status, il suo essere sociale; riflesso nel vetro invece un uomo trasandato, ombra specchiata di una persona che andrebbe ripulita e risistemata. Aiutata.
L'uomo sulla panchina attraversò la strada e si diresse verso quell'altro tizio incantato davanti alla vetrina:
“Non hai perso il vizio di scorgere Nietzsche in ogni dove?”
Lui si girò lentamente. Non scattò, ma caricò quel suo volteggio di tutta l'intensità di cui disponeva:
“Cosa sarebbe Nietzsche senza Platone...” fece fatica a completare la frase perché un groppo alla gola gli crebbe come un melone.
Faceva fatica a constatare quanto avesse perduto in tutto quel tempo, come era stato possibile. Allora sembravano immortali, eroi invincibili destinati a cambiare il mondo, ora erano riflessi trasandati in una vetrina, fissi a guardare un manichino.
Come era stato possibile? Eppure era accaduto.

Ora stavano seduti in un bar e ricordarono la frase detta un milione di anni fa, da uno di loro: “ogni vera ontologia scorre nella dialettica di un caffè”.
Sorrisero al ricordo di quella frase, uno dei due accennò perfino una mezza risata, ma risultava troppo falsa e forzata, così la strozzò in gola.
“Sai qual è la cosa peggiore amico mio?”
“Dimmi...”
“Constatare l'impossibilità dell'azione. Non che le condizioni non permettano di agire, perché se così fosse basterebbe attendere il giusto momento. Ma la cosa peggiore è l'impossibilità dell'azione dovuta alla mancanza di idee, del cosa-fare”.
“Per farmi capire meglio di cosa parli, dovresti dirmi di quale problema stiamo trattando...”
“Stiamo parlando DEL problema! Che fine hanno fatto i sogni, le speranze? Eravamo gli uomini che guardano oltre la grotta, gli spiriti liberi, che fine ha fatto il nostro esserci?”.
L'amico lo guardò con un'occhiata severa, un mezzo rimprovero:
“Mi tocca fare il realista amico mio: i sogni erano sogni e tutto il resto ragazzate, illusioni. Siamo atterrati nel mondo e contro di quello non si vince, al massimo ci si adegua...”
“E a te va bene così? Ti senti a posto?”
“Poco importa quello che va bene a me o no, che alternativa c'è, che possibilità abbiamo? Il mondo viene prima. La realtà. Noi dobbiamo avere a che fare con questa, non c'è altro substrato. O hai qualche altra idea, che sia un'idea possibile del fare?”
“Ecco, ci sei; questa è la cosa peggiore, la mancanza di altra possibilità. Possiamo solo constatare l'impossibilità dell'azione altra, l'impossibilità dovuta alla mancanza di idee: siamo troppo vecchi per sognare...”
“Ma troppo vivi per non essere insoddisfatti, non pensare che non ti capisca. E quando si è disillusi la speranza diventa malinconia e noi siamo a questo punto”.
Sorrisero entrambi, insieme, e questa volta il gesto era sincero, pulito.
Lentamente come un torrente fangoso la dialettica aveva ripreso a scorrere. Non che avrebbe portato da qualche parte, ma per un attimo era tornata a muoversi. Fu allora che pensarono che forse non è neppure la strada, ma il metro successivo che può dare una qualche speranza: l'unico punto di contatto tra volontà e potenza, come diceva quell'altro tizio che oggi non c'era.
Avevano finito di bere il loro caffè e si stavano per salutare, lo sapevano. La finestra vicina al loro tavolino dava sulla strada, dove sorgeva un negozio con una grande vetrina. Di fronte al negozio stava parcheggiato un furgone rosso con una scritta bianca, due operai stavano caricando sul mezzo un manichino, presto lo avrebbero sostituito ma ora non importava: la malinconica speranza, una volta su un milione, aveva vinto sull'impossibilità dell'impossibilità. Per oggi a loro bastava così.