mercoledì 24 ottobre 2018

Diario canadese: Wapta Icefield (il Duca)




Perché il Wapta Icefield? Perchè questo enorme mondo di ghiacciai orizzontali e aguzze punte di rocce gialle e nere?
La scelta è arrivata per far di necessità virtù: avevamo bisogno di un alloggio disponibile e il Bow hut è grande e le cime attorno numerose.
Partiamo in una delle giornate più dense di fumo, lasciando la macchina vicino al grande lago. Il sentiero è bello e comodo, accompagnato da un torrente burrascoso, gonfio di rapidi, stretto nelle alte gole rocciose. Superiamo il fiume passando su di un grosso masso incastrato nella parte alta di un kanyon e poi proseguiamo verso i ghiacciai. Il guado dei torrenti successivi crea qualche problema in più, in qualche caso bisogna togliersi gli scarponi e camminare nell'acqua fino a mezza coscia, un'acqua potente e gelida.
Ci sistemiamo nel bivacco, passiamo qui la notte, poi saliamo verso la coda del ghiacciaio puntando alla bella cuspide rocciosa del St. Nicholas peak. E' questo il nostro primo obbiettivo della giornata.
Legatici in due cordate (io con Greg, Ale con Andrea) saliamo facendo lo slalom tra i numerosi crepacci che segnano la tavolata di ghiaccio nero. Aggiriamo la strapiombante parete nord e ci troviamo su di un ghiacciaio ancora più pericoloso, dove i crepacci sono nascosti da precari ponti di neve sottile.
Giunti ai piedi della sella che separa il St. Nicholas peak dall'Olive peak, risaliamo i ripidi sfasciumi guadagnando la cresta. Qui dobbiamo far fronte alla testardaggine di Greg, che ci costringe ad un recupero in parete: è questa l’empirica lezione sul significato della parola “cazzata”, imparata con successo dal nostro amico polacco.
Fatta una corale risata, affrontiamo la sottile cresta, che in facile arrampicata ci porta sull'aguzza cima del St. Nicholas.
Spuntino col Jerk, le solite due chiacchiere e si riparte per la lunga cavalcata in cresta, con cui prima tocchiamo la cima dell’Olive Nord e poi la cima dell’Olive Sud.
Sotto di noi si stende l’enorme ghiacciaio piatto di Wapta, che come un’immensa pianura grigio-bianca brilla sotto al sole.
Tornati al bivacco passando per le colate di ghiaccio che precipitano ad est, ci concediamo una piacevole pausa. Ci si riposa e si spacca la legna; è l’ultimo atto alpinistico di questo viaggio che continuerà verso nord, nelle terre di Jasper. Mi guardo attorno: le cime, i ghiacciai, le morene. Il bosco più in basso e il torrente che scroscia; i volti dei miei amici. Perdo un attimo per osservarmi al centro di tutto questo: sono finalmente felice e sereno.

martedì 23 ottobre 2018

Diario canadese: gli alloggi (il Duca)



I punti focali della spedizione canadese sono stati gli alloggi, ognuno di loro ha segnato una storia e ha avuto la sua importanza. Dagli hotel di Calgary, al bivacco di Bow; dagli ostelli principali, ai wild hostels, fino ad arrivare al lodge di Radium, presto rinominato “la nostra casa”.
Ci sono ricordi mitici legati a queste sistemazioni. Come le notti festose a Banff, dove abbiamo rimpianto di non avere 20 anni. Oppure le serate al Mosquito, suonando la chitarra e bevendo vodka, mentre Greg correva nudo dalla sauna di pietra al torrente ghiacciato: freddo fuori, atmosfera da campo hippy dentro.
Ovviamente “la nostra casa” ha avuto un ruolo particolare. Qui abbiamo constatato che l'Assiniboine sarebbe stato irraggiungibile, qui abbiamo dovuto ridisegnare i nostri piani.
Così questo pezzettino di America, da semplice luogo di passaggio, è diventata la nostra base per le grandi decisioni. E la proprietaria, una grossa signora in stile redneck, ci ha lasciato libertà totale di movimento, affidandoci di fatto l'intero lodge di cui eravamo gli unici ospiti.
Quelle serate sono vicine alla leggenda, con le grandi grigliate di Prina sulla veranda, condite con litri di birra. La musica, il relax alla luce del tramonto, i mufloni che tiravano potenti cornate agli alberi da frutta. E poi le chiacchierate con il nostro Clint Eastwood, il marito della proprietaria, che col suo aspetto da film western passava a raccontarci le sue storie.
Anche il Bow hut ci ha regalato bei momenti, con il compleanno di Greg festeggiato con dei dolcetti pesanti come macigni e la pasta cucinata sul grande fornello. Il nostro basso profilo da clandestini, la legna tagliata al ritorno dalla cima, il silenzio riempito dallo scrosciare del torrente.
Ogni notte un letto diverso, ogni sera un posto nuovo, arrivando e ripartendo come cavalieri vagabondi, sempre da qualche parte a scrivere la nostra storia.

mercoledì 17 ottobre 2018

Diario canadese: Stanley peak (il Duca)



Il sogno si è infranto, la rabbia si mischia alla necessità di tessere nuovi piani. 
La zona dell’Assiniboine, la montagna che siamo venuti a scalare, è stata chiusa per gli incendi. Sembra che la coltre enorme di fuochi abbia come proprio centro proprio lei, la piramide bellissima dell’Assiniboine, che da sfida accattivante è diventato un sogno impossibile.
L’unica valle libera dagli incendi, nella regione dove ci troviamo, è quella dominata dallo Stanley Peak, una montagna che nessuno di noi ha mai sentito, ma che diventa il nostro nuovo obiettivo.
Lasciata la macchina lungo la strada, imbocchiamo la lunghissima valle immergendoci nella fitta foresta di aghifogli. Si cammina in piano cantando per tenere lontani gli orsi: qui gli avvicinamenti sono parte consistente dell’avventura. Arrivati al fronte della valle ci troviamo sotto alla bastionata della nostra montagna, che a balze si alza misteriosa e rigata da mille cascate.
Individuiamo la possibile linea nella parete, andando a cogliere una cengia che taglia nettamente gli strapiombi di roccia grigia. Si sale, si sale sempre sperando di trovare la giusta via. Sappiamo che dobbiamo andare a prendere e risalire la cresta nord, ma superata una balza ce n’è sempre un’altra dopo e non si capisce dove sia la cresta vera e propria.
Alla fine la scoviamo ed inizia l’arrampicata, sulla roccia più marcia che si possa immaginare. Le incertezze sono molte, numerosi i torrioni che superiamo uno ad uno, con l’augurio di poter scorgere finalmente la cima della montagna.
Dopo un ultimo salto precario, sbuchiamo ad un pianoro. Avevamo una labile speranza che la cima fosse qui, invece la vetta è ancora drammaticamente lontana. Dovremmo mollare, il buon senso direbbe così, invece la guardiamo e ne siamo sedotti. Discutiamo seduti davanti al colosso, all’ultima bellissima piramide che sorregge la cima. Il punto più critico sembra essere un’alta fascia verticale di roccia compatta, poco sotto alla vetta. Decidiamo di andare a vedere.
Altra arrampicata su roccia marcia, con quella voglia di farcela che sa darti forza anche dopo ore di fatiche e incertezze. I ghiacciai brillano bianchi, la parete nord precipita scintillante. Noi proviamo a trovare un passaggio strisciando su quei blocchi di roccia liscia, infilandoci nelle sue fessure verticali. Ci vorrebbe più tempo e più attrezzatura. Solo una possibilità rimane: provare ad esplorare il canalone che lontano, oltre una lunga cengia, potrebbe aprire la montagna verso il suo punto più alto.
Lo tento da solo, spinto da Ale, mentre gli altri si fermano lì per coprirmi la ritirata. E’ un sollievo sapere che sono lì ad aspettarmi, sento tutto il loro appoggio, siamo una squadra e vado in vetta per tutti. E’ una sensazione che al di là delle retoriche ho provato pochissime volte: una su tutte è questa!
Quando sbuco in cima, oltre la calotta nevosa, con ai piedi il ripidissimo sfasciume, sono felicissimo. Le gambe mi tremano, le Montagne Rocciose sono attorno a me, ce l’abbiamo fatta!

martedì 16 ottobre 2018

Diario canadese: l'acqua (il Duca)



Giro di messaggi prima della partenza, l’importanza di non dimenticare nulla, soprattutto l’essenziale: piccozze, corde, scarponi… il costume. Sembra una battuta, ma alla fine tutti e quattro ne abbiamo uno, ben nascosto tra il materiale da alpinismo: c’è voglia di vacanza.
E l’acqua e il bagno sono stati una costante, soprattutto per quel pazzo di Greg che senza esitazione si è buttato nei laghi più ghiacciati.
C’è come la voglia di lavare via qualcosa, di purificarsi, di lavare via la stanchezza e lo stress, le sensazioni più appiccicose e fastidiose. Il problema non è la fatica delle scalate, è un’altra stanchezza che si accumula nel cervello per tutto l’anno.
E quante sensazioni legate al rapporto battesimale con l’acqua: 
Nelle fonti termali a 2700m, pozze naturali d’acqua calda ai piedi dei nevai, ore di cammino lontane da qualsiasi segno umano. 
Nella piscina del primo hotel, prima di andare a saccheggiare il buffet, ridendo perché non è affatto alpinistico, ma proprio per questo è una figata. 
Nel laghetto sotto la cima del Temple, dove il bagno di Greg ed Ale è stata una scusa spettacolare, la sede ideale per riposarsi e chiacchierare serenamente. 
Alle terme di Radium, perché: “visto che il piano è saltato, tanto vale godersela un po’!”.

lunedì 15 ottobre 2018

Diario canadese: Mount Temple (il Duca)




Il Mount Temple è una montagna grandiosa e bellissima. Quando ho letto che la sua salita non presenta particolari difficoltà tecniche non ho avuto dubbi: sarebbe stata il nostro secondo obbiettivo, il giro di riscaldamento prima dell’Assiniboine.
Mentre la parete nord è un immenso muro di ghiaccio, sovrastato da un grande seracco pensile, il versante sud è costituito da diverse balze di roccia verticale, intervallate da larghe cenge ghiaiose.
La via da noi scelta percorre la cresta est, che è una delle grandi classiche delle montagne canadesi.
Partiti dall’azzurrissimo Lake Louise (affollato già di primo mattino) ci siamo immersi nel bosco iniziando il nostro lungo viaggio di avvicinamento. Prima caratteristica delle Montagne Rocciose è il fatto che il diritto a scalarle va davvero guadagnato, con marce infinite che consentono di coprire le decine di kilometri che ti separano dalla montagna vera e propria.
Eppure è proprio in questi avvicinamenti che ti si schiude la magica bellezza che si nasconde su queste montagne.
Usciti dal bosco abbiamo attraversato una valle verde smeraldo, dominata dalle pareti rocciose dei Ten Peaks e dalla mole del Mount Temple, che finalmente si è svelato in tutta la sua possanza. Superati una serie di laghetti, siamo saliti ad un passo dove ci siamo concessi un po’ di riposo prima di attaccare la cresta rocciosa.
Ci circondavano torrioni di roccia stratificati con diversi colori, mentre in lontananza si intravedevano grandi montagne innevate. I nostri volti erano tutti lì: Andrea, Greg, Ale, come improvvisamente buttati in una dimensione che solo qualche mese prima era solo un’idea abbozzata.
La cresta è stata una lunga e facile scalata. Poi la vetta e il vento del nord che ci ha reso felici: noi quattro lassù, ognuno con la sua storia, ma insieme nel cuore del Canada.

domenica 14 ottobre 2018

Diario canadese: la strada (il Duca)

Passaggio in macchina fino a San Donato, metropolitana fino a Milano Centrale, pullman per l’aeroporto di Orio al Serio. Bivacco. Volo per Kiev, aereo fino a Toronto; ritiro bagagli, alluvione della città, voli soppressi, ritardi. Aereo per Calgary, navetta per l’hotel, dove arrivo distrutto dopo 48 ore di viaggio. I miei amici dormono nella stanza, Ale mi dà il benvenuto mezzo addormentato: la squadra c’è, siamo arrivati tutti.
Una delle cose più impressionanti del nostro viaggio in Canada sono le strade, e non è una metafora. Strade lunghe, infinite, vuote, che tagliano immensi spazi di terre selvagge dove l’unica traccia umana è quella strada. Si viaggia per ore senza incontrare una sola casa, centinaia di kilometri di fitta foresta disabitata dall’uomo, attraversata da quella striscia di asfalto perfetto.
L’aria è ritmata dalla musica country che suona come la colonna sonora di un film, ma su quella macchina ci siamo davvero: quattro uomini alla ricerca di un sogno. Oltre la coltre dei boschi si nascondono le montagne, avvolte nei fumi degli incendi che stanno devastando la regione, le montagne che come un filo di Arianna ci hanno condotti fin qui. Noi viaggiamo lungo la strada, da un angolo all’altro delle Montagne Rocciose, raccogliendo i frammenti delle nostre anime che si annidano sulle cime del mondo.