mercoledì 25 novembre 2015

25 Novembre 2012 - Canale Foglia (il Duca)


Riporto la relazione della nuova via aperta da me e da Ale esattamente tre anni fa sulla parete Est del Pizzo della Forcola. La via è stata da noi valutata AD, ma con neve più abbondante le difficoltà potrebbero diminuire. E' probabilmente anche l'unica via che sale questa parete.

PREMESSA: Il Pizzo della Forcola è una montagna assai poco frequentata in una valle bellissima e poco battuta. L'idea di salire questo canale è nata ad Ale alcuni anni fa, osservando le bellissime stratificazioni rocciose della parete est e scorgendo la logicità di questa linea. Cercando sia in internet che (soprattutto) sulla GMI Mesolcina-Spluga di Gogna, da nessuna parte risulta una relazione di questa salita, quindi la nostra potrebbe anche essere una prima. Certamente questo canale (da noi battezzato Canale Foglia) merita di essere un classico delle valli sconosciute.

RELAZIONE: Lasciata l'auto a Voga (SO), presso il piccolo parcheggio in prossimità di un tornante, sfruttando le numerose scorciatoie saliamo in direzione dell'Alpe Dardano, dove termina la strada sterrata. 
Proseguiamo per il bel sentiero che velocemente raggiunge l'Alpe Buglio, quindi in falsopiano per un bellissimo lariceto ci inoltriamo nella valle per raggiungere, sul lato opposto, il bivacco Forcola, posto alla base dell'omonimo pizzo. 
Da qui, risalendo i pendii soprastanti e spostandoci leggermente verso destra, puntiamo alla base del canale (che dal rifugio appare come una rampa obliqua) e per pascoli e detriti appena innevati, raggiungiamo il cono di valanga ai piedi dell'intaglio. Poco sopra, finalmente attacchiamo il canale. 
La prima parte è costituita da un profondo solco roccioso, all'interno del quale abbiamo trovato ghiaccio vivo, quasi una cascata anche se non molto pendente (45°). A metà di questo solco, di circa 100m, si trova il tratto più delicato della via: un salto di una decina di metri (60°) costituito da placche di roccia coperte da un sottile strato di ghiaccio (comunque ben piccozzabile). 
Usciti dal solco, il canale si allarga mantenendo però sempre una linea evidente. Si continua a salire su pendenza pressoché costante, salvo in una strettoia dove l'inclinazione e il ghiaccio aumentano costituendo un passaggio un po' più tecnico. 
Il canale termina ad una selletta; da qui si risale di qualche metro la cresta a sud giungendo in vetta alla montagna (ometto). 

In discesa abbiamo percorso la cresta ovest che costituisce la via normale del Pizzo della Forcola. Il percorso è evidente anche se non segnato (se non per la presenza di un chiodo); siamo così scesi disarrampicando su salti di roccia mai difficili (max II) ma esposti. Individuato il primo canalino di neve percorribile, abbiamo lasciato la cresta scendendo nel vallone nord da cui abbiamo raggiunto il passo della Forcola. Per nevai e traccia di sentiero siamo quindi ritornati all'Alpe Buglio, e da qui alla macchina.











giovedì 22 ottobre 2015

L'incantesimo della montagna (il Duca)

Raggiungiamo il colle e ci fermiamo: sotto di noi si stende come un mare calmo il ghiacciaio, mentre dinnanzi si alza grandiosa la parete nord del Lyskamm.
Guardando a ovest è ancora notte fonda, il cielo è nero, buio, delicatamente puntellato da milioni di stelle. A est una sottile linea di fuoco segna il confine delle montagne.
Ci sediamo nella neve circondati da un silenzio immenso, che ci ingloba totalmente. Sembriamo pellegrini entrati nel gigantesco regno della pace, in una tranquillità gelida, terribilmente assoluta.
Fa freddo, molto freddo, noi aspettiamo. Attendiamo che la prima luce del giorno illumini la nostra via, che ci sveli le rocce incrostate di ghiaccio che ora appena si intravedono sotto alla luna. Lallo si sfila gli scarponi e si mette un secondo paio di calzettoni; attendiamo e allo stesso momento fremiamo per iniziare la nostra scalata. Per lanciarci verso la vetta.
Intanto però siamo qua, fermi e in silenzio nel buio-argento dell’immensità. C’è tutta la potenza e la malinconia della montagna in questo momento, c’è tutto il suo assolutamente-immobile. C’è una bellezza assoluta, qualcosa che incute devoto timore.
Siamo in giro già da qualche ora: abbiamo girovagato a lungo per il labirinto di crepacci fino al colle del Lys, quindi abbiamo attraversato la valle sotto al Corno Nero, alla Parrot, alla Ghifetti. Ora inizia la parte più delicata ed esposta, più tecnica. Sappiamo che appena oltre il Rosa precipita in una parete immensa e vertiginosa, sappiamo bene che danzeremo sul suo filo sottile. Il nostro obbiettivo è il punto più alto di questo grandioso regno di ghiaccio e roccia… ma ora siamo qua, come prigionieri di un incantesimo di assoluta bellezza.

Qualche minuto dopo il giorno ci ha riconsegnati all’azione, ma quella magia ha lasciato una traccia in noi. Quando ripenso a quell’attesa sul ghiacciaio riscopro un’appartenenza indistruttibile, a cui devo ritornare, di cui non posso fare a meno. E poi viene un pensiero: se Chi governa quel regno, Chi l’ha dipinto con un colpo di pennello, è lo stesso che ha buttato anche me in questo mondo… allora la speranza è grande.

Essere alpinisti è la nostra grazia, bisogna ringraziare ogni giorno!

mercoledì 21 ottobre 2015

High Hopes (Pink Floyd)

Beyond the horizon of the place we lived when we were young
In a world of magnets and miracles
Our thoughts strayed constantly and without boundary
The ringing of the division bell had begun

Along the long road and on down the causeway
Do they still meet there by the Cut

There was a ragged band that followed in our footsteps
Running before time took our dreams away
Leaving the myriad small creatures trying to tie us to the ground
To a life consumed by slow decay

The grass was greener
The light was brighter
With friends surrounded
The nights of wonder

Looking beyond the embers of bridges glowing behind us
To a glimpse of how green it was on the other side
Steps taken forwards but sleepwalking back again
Dragged by the force of some inner tide

At a higher altitude with flag unfurled
We reached the dizzy heights of that dreamed of world

Encumbered forever by desire and ambition
There's a hunger still unsatisfied
Our weary eyes still stray to the horizon
Though down this road we've been so many times

The grass was greener
The light was brighter
The taste was sweeter
The nights of wonder
With friends surrounded
The dawn mist glowing
The water flowing
The endless river

martedì 22 settembre 2015

La bellezza dell'amicizia (il Duca)

Riprendendo in mano il mio diario, posso constatare che quest’anno ne ho combinate un bel po’. Dalle invernali nelle Orobie, alle aiguilles del Bianco; dalle dolomiti estive, all’Himalaya indiano; dai 4000 del Rosa, alle creste selvagge dello Spluga. Passando per il biellese, l’Engadina, il Grossglockner…
In questa serata un po’ malinconica posso essere soddisfatto del mio andare; e con un pizzico di orgoglio, posso alzare il mio bicchiere brindando a tutte quante le mie cime.
Tra tutte le salite ce n’è però una su cui cade in particolare la mia attenzione. Non è certamente la più impegnativa, né la più epica, però ha un profumo particolare. Una bellezza “diversa”.
Vado a prendere le foto e me le riguardo con attenzione. Quelle immagini assumono un sapore più intenso, come se tornassero in vita, mischiandosi alla poesia della grappa.
Sono immagini che parlano di una montagna bianca, sorretta da rocce scure. Ai suoi piedi si stende la valle verde, come il tappeto magico di una fiaba. Il torrente scorre limpido, mi pare di percepirne lo scrosciare, mentre grandi vacche dal pelo lungo pascolano libere.
Sembra quasi di rivederli, cinque amici fuori dal bivacco rosso che chiacchierano, scherzano, attendono la loro scalata. Due si allontanano per raccogliere l’acqua che sgorga dal ghiacciaio, gli altri si mettono poi a preparare la cena.
Si fanno grandi discussioni e stupide battute, mentre le candele danzano sul tavolo di legno e le voci si perdono nella notte stellata.
Il giorno seguente le due cordate scalano lo spigolo nord della cima di Piazzi e arrivati in vetta si raccolgono per una preghiera. Il vento soffia, intorno c’è una bellezza che commuove. Ore dopo gli amici sono seduti alla festa della malga, con il formaggio e la polenta che si sposano con vino e grappa.
Già, gli amici. Ecco cos’è quel sapore particolare: l’amicizia coronata dalla bellezza della montagna. Quell’amicizia che spesso si nasconde nell’ambizione della cima, che rimane in ombra nella foga del salire, del “fare” la montagna.
Da tanto tempo, da troppo, non mi fermavo a respirare quel clima, quella bellezza totale; non solo nella scalata, ma nello stare insieme. Quella volta si è acceso qualcosa che mi pareva di aver perso; o meglio, in quei giorni quel qualcosa ha brillato in modo più intenso. Ed è stato bellissimo.
Ripenso a quella scalata con un po’ di malinconia, forse con un po’ di timore.
Timore che quello che ho vissuto in quei giorni possa venire nuovamente sommerso, possa venire nascosto da qualcosa di più “importante”, di più “impellente”. Timore che l’alpinismo possa mangiarsi via tutto, nonostante sia stato l’alpinismo stesso ad averlo creato.
Perché non c’è amicizia più grande che scalare insieme le montagne, ma non c’è accecamento più grande della foga del fare (forse me ne sto rendendo conto solo ora).

venerdì 28 agosto 2015

Stok Kangri, la cima donata (il Duca)

E’ strano ripensare a come fosse notte. Tornando con la memoria a quel momento ricordo la luce. E non quella fioca della frontale che illuminava i miei passi, ma quella potente della luna che nel cielo brillava come un faro d’argento.
Quei momenti rimangono profondi nel mio cuore, carichi di una commozione enorme che diventa impossibile riportare in parole. Ricordo quando, alzando lo sguardo dalla cresta nevosa, ho scorto la cornice sommitale della mia cima. Compiuti gli ultimi passi, finalmente ho raggiunto le bandierine della vetta, le quali, a differenza che nelle foto visionate cento volte, erano quasi totalmente sepolte dalla neve.
Ho stretto la mano a Stanzin, poi ci siamo abbracciati. Lui esultava come un matto e quando gli ho detto che erano solo le 4:50 ha iniziato a ringraziare gli dei, gridando al record. Ma ciò che lo rendeva ancora più orgoglioso era il fatto che da una settimana nessuno era ancora riuscito a raggiungere la cima, nonostante i numerosi tentativi delle molte spedizioni.
Mentre lui faceva foto e urlava festoso, io mi sono raccolto in me stesso. Il cielo nero veniva continuamente rigato dalle stelle cadenti, mentre le montagne del Ladakh si stendevano attorno a me. Una grandissima gioia mi ha colto, costringendomi a guardarmi indietro:
“Che ci faccio qui, in mezzo all’Asia, sulla cima di una montagna di oltre 6000 metri? Come ci sono arrivato?”
Così ho ripensato a tutte le difficoltà e le incertezze dei giorni precedenti: la pioggia che continuava a cadere ed io incazzato, affacciato alla finestra a Leh. I fiumi gonfi e i cavalli che non riuscivano a passare. Le voci che raccontavano di quantità spaventose di neve.
Ho ripensato a tutta l’organizzazione, a come era stata brava la Cinzia a mettere giù tutto bene, dandomi la possibilità di arrivare in vetta. Ho ripensato agli allenamenti, alle spese, al lungo viaggio.
Ma il viaggio non era partito da così vicino, tutto aveva preso piede molto più in là.
Mi è allora venuta in mente la prima volta che ho fatto la Grignetta, quando avevo 4 anni, con mio papà. Poi le cime più alte, il primo ghiacciaio a 11 anni per arrivare in cima all’Adamello. Ho ripensato alle scorazzate con Ciccio e poi con Lucia, alle scalate solitarie, a quelle con Mario, Lallo, Prina, Ale. Alla spedizione in Kazakhistan con Claudio e a quella sul Rwenzori con la banda del Gus.
Ho ricordato le mie valli, la val di Rhemes, la valle del Tonolini. La conca dei Giganti, con le grandi cime orobiche che si specchiano nel lago di Coca.
Ho ringraziato; perché l’uomo può metterci la buona volontà, ma poi ci si rende conto che certe cose non ce le si guadagna da soli, in nessun modo.
Ero commosso su quella cima, proprio così. Con questa consapevolezza ben impressa nel cuore; mentre con lo zaino incrostato di ghiaccio osservavo l’alba spaccare l’orizzonte, con l’Himalaya e il mio sogno tutto attorno a me. 

venerdì 24 luglio 2015

lunedì 22 giugno 2015

Via del Dubbio, un anno dopo (il Duca)

E' passato un anno esatto dal tentativo sulla via del Dubbio, dove abbiamo rischiato grosso. Riporto il racconto pubblicato allora sul blog dei Mountain Explorers.

UNA VIA, UNA VALANGA E LA BELLEZZA DELLA MONTAGNA

Le gambe sono prese da una strana frenesia, mentre con le mani semi congelate percorro la cengia rocciosa. Sento Ale che mi chiama, mi fermo strofinandomi le dita e guardo in basso: lo stretto colatoio di misto è irriconoscibile, sfigurato dalla grande valanga che mi ha appena graziato.

Siamo partiti alle 23.30 da casa, da Milano, con una decisione presa all’ultimo momento. L’obiettivo era una vecchia storia, la via del Dubbio, una via sconosciuta sul versante est del Tambò, una via non estrema, ma affascinate e selvaggia.
Abbiamo calzato gli scarponi al buio, poi i primi bagliori rossi hanno iniziato a tingere il cielo timidamente, sbucando da dietro i torrioni del Suretta. Superata la crepaccia terminale abbiamo risalito il pendio di neve dura, buona, fino alla bastionata rocciosa. Qui per placche e speroni siamo saliti facilmente, imboccando poi il canale finale.
Piccozze e ramponi entrano alla perfezione, Ale è sullo sperone roccioso, mentre io giungo ad una strettoia verticale che per rocce rotte risalgo fino all’ultima placca: in piedi, in bilico su una lama di ghiaccio, cerco di conficcare le picche nella neve inconsistente sopra alla placca. Mi muovo precariamente quando sento Ale urlare: “Attento Ste!”.
L’urlo continua, sento un boato tremendo avvicinarsi. Mollate le picche nello zoccolo di neve sopra di me, mi metto rasente la placca, stando il più possibile sotto al casco. Intorno a me scoppia il finimondo: neve fradicia e sassi mi piovono tutti attorno investendomi sullo zaino e la testa. Diventa tutto buio, sento massi enormi saltarmi mandando in frantumi la massa di neve che mi protegge, le mie piccozze vengono spazzate via. Cerco di non farmi sbilanciare, non penso a niente, cerco di rimanere in equilibrio.
Pian piano la furia della valanga diminuisce, un’ultima vomitata di neve e poi basta; incredulo inizio a muovermi seguendo lentamente la cengia che mi porta sullo sperone a destra del colatoio.

Quando Ale mi raggiunge non crede ai suoi occhi nel trovarmi ancora vivo.

Eppure anche nella tragedia scampata la montagna nasconde una bellezza inaspettata: la bellezza della sua selvaggia grandezza. La bellezza di una natura che compie il suo corso, che semplicemente è. Una bellezza in cui noi possiamo inoltrarci, senza poterla mai veramente dominare. E così, davanti all’esaltazione delle nostre scalate, ci accorgiamo che anche la nostra vita à nelle mani di qualcos'Altro, a cui possiamo semplicemente dire grazie.

venerdì 29 maggio 2015

Ricordi solitari (il Duca)

Siamo a fine maggio, sono passati solo due mesi da quando ho scattato quelle foto. Ora le riguardo e sembrano di un’eternità fa.
E’ strano come il tempo a volte ci sfugga di mano, faccia strani giochi. A pensare a quei due mesi i fatti che li hanno percorsi sono allacciati, le cose scorrono una sull’altra con linearità. Ma a riguardare la scalata della nord del Mengol sembrano passati anni.
Eppure ogni scatto lo ricordo perfettamente e mi ridà come una fulminata, risento su per la schiena la sensazione di allora. Non sono grandi scatti, solo frettolosi frammenti di una giornata di inizio primavera. Frammenti di una scalata solitaria, che come tutte le solitarie è ricca di sensazioni intense, uniche.
Ricordo la partenza in macchina, col freddo della mattina. La musica a tutto volume per pensare un po’ meno a quella percezione appiccicosa: “che accidenti sto facendo?!”. Il giorno prima mi ero sentito con Ale e Mario, entrambi mi avevano messo in guardia dalle scariche e dalle slavine: “Occhio che non diventi un’altra via del dubbio!” “Se le condizioni non sono buone non fare cazzate e torna indietro”.
Ricordo la soddisfazione di aver parcheggiato, con l’alba che sbocciava e nessuno a chiedermi il pagamento. Poi i primi passi su per l’asfalto e poi la neve. Faceva freddo, l’inverno era finito da meno di una settimana, ma già la primavera aveva cosparso il bosco dei suoi profumi.
Avevo una fretta maledetta, avevo voglia di vedere la parete, di scoprire come era messo il Mengol. Passo via il rifugio Bagozza e mi inoltro nella conca dei Campelli. Gli abeti in ombra ancora mi coprono la visuale, la strada è lastricata da neve bella dura. Poi ecco ergersi bellissimo il Cimon della Bagozza e alla sua sinistra la mia montagna!
Non è stata la scalata del secolo, sicuramente no. Però è stata una gran bella scalata. L’avvicinamento è stato su neve buona, come la prima parte del canale. Poi le condizioni non erano delle migliori: il primo salto di roccia vetrato, la parte superiore del canale con neve non portante. Ricordo benissimo quanto ho dannato per attaccare le rocce della parete, là dove termina in canale; con una sorta di crepaccia terminale che si formava tra le roccette strapiombanti e la neve molle.
E in ultimo lo sperone finale, con le sottili lame di neve e la roccia piena della spolverata di fine inverno. Però che esaltazione, con quella esposizione sul vuoto, solo, con il silenzio del vento a farmi compagnia. Cercare il passaggio su per lo sperone verticale, scavando nella neve per liberare un appiglio, grattando col piede per incastrare un rampone. E poi la cima…
Una delle foto che più mi ricordano la bellezza di quella giornata è però una delle ultime. Una brutta foto sbiadita, che i miei studenti chiamerebbero selfie. Sono io sdraiato sotto ad un larice dopo la scalata. C’era giusto un cerchio di prato fiorito sotto l’albero, tutto intorno la neve. Mi sono messo lì, in maniche corte, tra l’ombra e il sole al caldo, ormai fuori dal cono di freddo dei versanti nord. Ho mangiato lì e senza fronzoli mi sono reso conto di una cosa semplicissima: di essere felice.

martedì 14 aprile 2015

Thunder on the Mountain (Bob Dylan)

Thunder on the mountain, fires on the moon
There's a ruckus in the alley and the sun will be here soon
Today's the day, gonna grab my trombone and blow
Well, there's hot stuff here and it's everywhere I go

I was thinkin' 'bout Alicia Keys, couldn't keep from crying
When she was born in Hell's Kitchen, I was living down the line
I'm wondering where in the world Alicia Keys could be
I been looking for her even clear through Tennessee

Feel like my soul is beginning to expand
Look into my heart and you will sort of understand
You brought me here, now you're trying to run me away
The writing's on the wall, come read it, come see what it say

Thunder on the mountain, rolling like a drum
Gonna sleep over there, that's where the music coming from
I don't need any guide, I already know the way
Remember this, I'm your servant both night and day

The pistols are poppin' and the power is down
I'd like to try somethin' but I'm so far from town
The sun keeps shinin' and the North Wind keeps picking up speed
Gonna forget about myself for a while, gonna go out and see what others need

I've been sitting down studying the art of love
I think it will fit me like a glove
I want some real good woman to do just what I say
Everybody got to wonder what's the matter with this cruel world today

Thunder on the mountain rolling to the ground
Gonna get up in the morning walk the hard road down
Some sweet day I'll stand beside my king
I wouldn't betray your love or any other thing

Gonna raise me an army, some tough sons of bitches
I'll recruit my army from the orphanages
I been to St. Herman's church and I've said my religious vows
I've sucked the milk out of a thousand cows

I got the porkchops, she got the pie
She ain't no angel and neither am I
Shame on your greed, shame on your wicked schemes
I'll say this, I don't give a damn about your dreams

Thunder on the mountain heavy as can be
Mean old twister bearing down on me
All the ladies of Washington scrambling to get out of town
Looks like something bad gonna happen, better roll your airplane down

Everybody's going and I want to go too
Don't wanna take a chance with somebody new
I did all I could and I did it right there and then
I've already confessed – no need to confess again

Gonna make a lot of money, gonna go up north
I'll plant and I'll harvest what the earth brings forth
The hammer's on the table, the pitchfork's on the shelf
For the love of God, you ought to take pity on yourself

mercoledì 11 marzo 2015

Didascalia di foto verticale (il Duca)

Recupero Ale che mi raggiunge e ci leghiamo in sosta. Sopra di noi una placca liscia di roccia compatta, sotto la parete incrostata di ghiaccio, il cielo è azzurro, si sta bene. 
Ci togliamo i ramponi in equilibrio sul vuoto, è impressionante come la parete ci faccia stare a nostro agio. Lo sguardo corre su per lo sperone da cui dobbiamo passare, ammira la montagna, esplora le fessure scure alla ricerca di un buon punto per proteggere, per mettere un friend.
Ora ci siamo, ma prima di partire riesco ad estrarmi per un attimo dalla scalata e mi fotografo i piedi. La vita è qui, una danza su questo pezzo di mondo, duro, severo, tanto caro. Mi balenano tutti i pessimismi del mondo, che ora vedo essere piccola cosa. La bellezza è incredibilmente potente sulla montagna, la nostra piccolezza fortemente caparbia. 
Come fa questo vuoto a non fermarci? La risposta non è scritta, ma sta nel movimento successivo, quando torno ad arrampicare. Tocco la roccia, ora siamo al sole: la musica è il silenzio, la montagna è la via, il vuoto lo spazio dove passare. 
Ci sentiamo incredibilmente vivi, ed è questo è il dono che portiamo a casa a chi ci attende.

domenica 8 febbraio 2015

Quel maledetto canale (il Duca)



Avevo deciso di fare un giro veloce, avevo promesso alla morosa di essere a casa presto e così ho puntato al Resegone. L’idea era percorrere i canali Pesciola, due dei pochi canali della montagna che mi mancavano ancora: salire da uno e scendere dall’altro.
Alle 6.00, con quattro ore di sonno nelle ossa, parto da casa, macchina ghiacciata e rock sparato a palla, giusto per darmi la sveglia. Un’ora dopo sono già scarponi ai piedi con la frontale che illumina i sassi del sentiero; il cielo è terso mentre i miei passi tamburellano verso i piani d’Erna.
Alle 8:00 attraverso i piani imbiancati dalla neve fresca, uno spettacolo sempre bello col lago avvolto dalle sue velature di foschia. Messe le ghette inizio a correre lungo il sentiero 5; raggiungo il canale Bobbio, torno un attimo indietro e mi butto a capofitto su per il canale precedente. Si affonda, tra neve polverosa e sassi, ma salgo deciso, convinto che sia la via giusta: mi sbaglio!
Arrivo ad un primo bivio, dove arrivano anche i primi dubbi, ma il solco principale sembra quello di destra. Lo imbocco sprofondando nella neve fino a metà coscia, salgo faticosamente nel canale che si stringe sempre di più, tra pareti strapiombanti e lisce. La salita è fatta da brevi e semplici salti, ma poco dopo mi trovo sotto ad una cascata di ghiaccio di una decina di metri. Certo non mi aspettavo queste difficoltà, l’unica breve relazione che avevo trovato segnava un impegno ben lontano da questo. Ma qui sono e qui salgo. 
Tirata fuori la seconda picca attacco la cascata, sugli 80 gradi, di ghiaccio ben compatto. Arrivo così a metà, dove riesco a fermarmi in una stretta nicchia fra la colata di ghiaccio e la parete rocciosa. Qui constato che la seconda parte è fatta da candelotti fragili, pendenza a 85 e l’incognito sopra. Sono solo e senza corda, così per evitare di rimanere bloccato decido di scendere.
Delicatamente ripercorro a ritroso la cascata, con il fiato sospeso. Quando tocco la base ho il cuore in gola, ma non ho nessuna intenzione di arrendermi, l’idea non mi sfiora nemmeno!
Saltellando giù per il canale, poco prima del bivio, seguo una stretta cengia e mi butto nell’altro ramo. Riprendo a salire quindi per neve dura, assestata da una slavina. Salgo bene, veloce, sicuro che questa volta sono sulla retta via: rampone, piccozza, rampone, piccozza.
Arrivo però ad un secondo bivio. Il ramo di sinistra è sbarrato da una parete di roccia, si vede, mentre il ramo di destra sembra continuare; seguo quindi quest’ultimo.
Mi pare di entrare in un tunnel, ancora una volta, con le pareti lisce chi si stringono alte attorno a me. Ma ecco che giungo ad una nuova barriera, questa volta consiste in una grotta rocciosa.
Provo ad entrare, convinto che difficilmente ci sia una via d’uscita, ma ecco che vedo che dall’alto entra un fascio di luce. Mi viene allora un’idea folle: provare a scalare internamente la grotta e poi sbucare dalla finestra naturale. Salgo verticale, trovando però scaglie buone. C’è un tratto un po’ strapiombante, faccio una spaccata, mi affaccio alla finestra e mi accorgo che dà sul vuoto. Sono fregato!
Di nuovo mi ritrovo a disarrampicare sul delicato, trattenendo il fiato. E di nuovo, una volta toccata terra, sento il cuore a mille. Ma arrendersi no, mai dopo tutti questi casini!
Riscendo quindi al secondo bivio e punto al ramo di sinistra, quello sbarrato dalla parete rocciosa. Mi trovo così ai piedi di una fessura, dove c’è anche un chiodo con fettuccia. Vedo che più in alto ce ne sono anche altri di chiodi, con cordini colorati. 
Salgo la prima parte della fessura, faticosamente, coi ramponi che stridono sulla roccia. Estraggo una piccozza e la pianto nel ghiaccio che riempie una nicchia alla base di un colatoio, ma il mio equilibrio è precario. Mi scivola un piede. Cercando di non precipitale mi lascio andare lentamente verso il basso, frenandomi con una spalla nella fessura. Arrivo così a terra mentre la mia piccozza è lassù. 
Decido allora di cambiare strategia e prendo ad arrampicare a destra della fessura; sono un po’ più esposto e sugli appigli trovo neve, ma gli appoggi sono migliori, anche se per le mani c’è poco. Salgo, mi sento al limite, ma ormai non posso più tornare indietro. Seguo le tacche ed entro nella parte sommitale del colatoio nevoso, alla base del quale c’è la mia piccozza.
Sbuffo come un matto, col cuore in gola, so esattamente quel che ho rischiato: ora non posso più scendere, non riuscirei senza ammazzarmi, posso solo continuare verso l’alto.
Estratta la seconda piccozza e legato lo zaino a un chiodo, discendo il ripido colatoio (70 gradi) fino all’altra picca, la recupero e torno su. Ora devo superare il camino finale, breve, liscio, stretto, chiuso da un maledetto masso incastrato.
Iniziano i mille tentativi, grattano i ramponi, scivolo, impreco. Ma nonostante gli sforzi non riesco a salire, mi trovo ancora alla base del camino e inizio ad aver paura: se non riesco ad uscire sono in trappola!
I pensieri mi turbinano nella testa. E’ qui che ci si chiede che diavolo faccio incastrato in un camino, a metà di una montagna di 1800m fatta mille volte, su una via che neppure so come si chiama. Cosa mi ha portato ad infilarmi qui?
Maledico la mia superbia, l’idea stramba per cui alla cima non rinuncio mai. Maledico l’acquolina che avevo il giorno prima, la voglia di scorazzare da solo per le mie montagne. Rimpiango una passeggiata in Duomo con la morosa.
Ma tutto questo non toglie il fatto che ora sono qui, incastrato in questo budello maledetto. Altre soluzioni non ce ne sono, l’unica è salire il camino!
Schiena da una parte e piedi dall’altra, tento il tutto per tutto, strisciando in opposizione su per le rocce. Le rughe su cui appoggiare le punte dei ramponi sono minuscole, le mani non trovano niente, ma salgo, coi muscoli tesi come il bastone di un arco. 
Arrivo finalmente all’uscita, al masso incastrato, estraggo la piccozza e la pianto nella neve dura. Fatico però a saltare fuori, lo zaino è bloccato, il mio equilibrio è delicato, minimo. Strattono, muovo prudentemente un rampone millimetro dopo millimetro. Così, delicatamente, mi porto sullo scivolo nevoso, sono fuori! 
Ho i muscoli gonfi mentre mi sento finalmente al sicuro coi piedi piantati nella neve. E’ incredibile come un pendio di 75 gradi di neve dura possa questa volta apparire come la fine dei miei guai.
Risalgo lo scivolo nevoso che lentamente si appoggia, fino a portarmi in una grande conca. L’adrenalina lascia ora spazio allo sfogo: sono ancora vivo!
Seguo adesso un largo canale dalla pendenza contenuta, raggiungo la cornice finale, la buco ed eccomi finalmente al sole. Vorrei buttarmi a terra, lasciandomi andare, ma non oso: ho paura di trovarmi paralizzato. Seguo invece come un automa la cresta, mi sembra di essere ubriaco, drogato, con la febbre a quaranta. Barcollo mentre pisto nella neve alta, un passo dopo l’altro, fino alla cima del pizzo Morterone al Resegone. 
Qui finalmente mi siedo, bevo, mangio, chiamo la Cinzia. Devo dimostrare a me stesso di essere in salvo, devo capire che ce l’ho fatta, ho bisogno di esserne sicuro. Ci provo con l’aiuto di qualcuno. Forse dall’altra parte del telefono non si capisce (come si potrebbe?), ma da questa parte si capisce bene e glielo grido: “sono davvero vivo, capisci? Capisci? ce l’ho fatta!”; già ce l’ho fatta: sono ancora una volta in cima alla mia montagna.

mercoledì 28 gennaio 2015

L'uomo buono (il Duca)

Ieri ho conosciuto un uomo buono.

Vive nella sua casa di legno e pietra, accoglie chi passa.
Offre polenta, brasato e vino rosso. Tutto al giusto prezzo,
con un sorriso e un racconto per ciascuno.

L’uomo buono sa di fuoco, di legna e resina.
Ha una moglie:
la ama, ci litiga
e ci fa l’amore.

L’uomo buono conosce i detti popolari,
racconta storie perse nella notte
e nel tempo.
L’uomo buono conosce la sua terra.

Nella casa dell’uomo buono,
là sopra il muro, un grande crocifisso ti guarda.
E’ circondato da foto
dei nipoti, del cane, dei vecchi amici.

L’uomo buono beve grappa di mugo,
ha una vecchia chitarra
recita poesie. Nessuno l’ha visto,
ma lui lo sa: l’uomo buono sa piangere.

L’uomo buono scrive, l’uomo buono si sveglia presto
e sa guardare l’alba.
Fa colazione con formaggio, latte
e vino, versato dalla damigiana.

L’uomo buono non è migliore degli altri.
L’uomo buono sbaglia, l’uomo buono si arrabbia.
Io vorrei essere un uomo buono,
perché l’uomo buono è buono:

l’uomo buono è felice.

domenica 18 gennaio 2015

Ricordando il 2014