Scendiamo dalla funivia carichi all'inverosimile. Ci sentiamo quasi fuori luogo davanti ad alpinisti e turisti ben ordinati nel loro vestiario; il loro format è perfettamente appropriato, la loro tenuta, il loro bagaglio, il portamento è esattamente conforme al lusso d'alta quota del posto in cui ci troviamo: il Diavolezza.
Noi ci muoviamo ciondolanti e goffi; abbiamo zaini, borsoni, sacchetti di plastica squarciati che dobbiamo tenere accartocciati per non perdere la roba che dentro ristagna in ordine sparso.
Strisciando lungo la morena ci allontaniamo, quasi fossimo due ladri. Ci abbassiamo verso una bella piazzola circondata da un muretto a secco, da noi scorta nella pietraia a picco sul ghiacciaio sottostante. Qui montiamo la nostra tenda, sotto lo sguardo incuriosito degli ospiti dell'albergo-rifugio, che con discrezione si lasciano distrarre dalle nostre manovre.
Ci sistemiamo, spargiamo le nostre cose tra pietre e residui di nevai e pian piano diventiamo gli abitanti della valle. Proprio così iniziamo a sentirci, ritrovando sempre più concretamente quell'appartenenza che sembrava avessimo tenuto da parte in attesa di ritrovarci qui.
Il nostro piccolo accampamento è pronto, apriamo le birre e le patatine che ci siamo portati, come in un rito già predisposto. Adesso, con calma, possiamo dedicarci al nostro compito di oggi: studiare l'oggetto che ci ha mossi fin qui, ammirare il re assoluto di questo luogo, prepararci per l'incontro con quella parete che ci attende da anni: la Nord del Piz Palù.
Tutto sembra portare in direzione di quella cattedrale scintillante, sorretta dai suoi tre speroni di roccia nera. I suoi seracchi bianchi precipitano verticali, accatastati uno sull'altro, baciati dal sole di inizio luglio che li fa brillare, che li rende abbaglianti.
Non importa per quale motivo ti trovi al Diavolezza, non importa in che veste, con quali aspettative e con quali progetti. Se sei lì non puoi che guardare a quella montagna e alla sua parete. Lo fa il turista giapponese che scatta foto con il suo enorme teleobiettivo, lo fa la ragazza ben vestita che la osserva con un iniziale scarso interesse, ma che non riesce a toglierle gli occhi di dosso, senza forse neppure sapere che cosa sia. Lo fa il cameriere che lavora al rifugio, che invece la conosce bene e che la guarda fumando intensamente, gettandole addosso tutti i pensieri che gli riempiono il cervello.
E poi la guardiamo noi, cercando in quella parete la via che abbiamo studiato, che siamo venuti a scalare. Speriamo di riconoscere un segno, di trovare un qualche conforto in quell'enorme tempio la cui realtà (sappiamo bene) sarà sempre altro da quanto ammirato in foto. E' questo un momento intensissimo, lo spazio temporale in cui si cerca di trasporre l'idea, il progetto, nella concretezza di qualcosa che è immensamente altro da te. Qualcosa che però sembra custodire un segreto che è anche il tuo, misteriosamente, fatalmente, intimamente. Una bellezza infinita che ti chiama inesorabilmente.
E' ancora piena notte quando lasciamo la tenda, ma il buio è riempito dalla luce intensa della luna, che argentata rende tutto fatato e spettrale.
Le condizioni sono ottime, ma come sempre l'avvicinamento sembra interminabile. Incontriamo qualche rara persona lungo il nostro cammino: una coppia si accinge a sciogliere la neve fuori dalla propria tendina, qualche alpinista sale lentamente per la via normale, una cordata attacca la Kuffner. Noi soli proseguiamo per la sezione più lontana, selvaggia e solitaria della parete: lo sperone Zippert.
Camminiamo silenziosi, avvolti nell'immensità del ghiacciaio che inizia a tingersi dei colori del mattino; sopra di noi la montagna si innalza spaventosa. Superati i resti di alcuni enormi seracchi crollati, iniziamo a risalire il cono nevoso che fa da trampolino alla nostra via.
Ci fermiamo a studiare la situazione, lì in piedi sotto alla nostra linea, davanti alla porta del nostro cammino. Ci leghiamo quasi tremolanti, con reverenziale timore.
Ale fissa la sua piccozza nella superficie dura del manto nevoso, mentre io inizio a strisciare lungo la grossa cornice che fa da ponte sulla crepaccia terminale. Con un passo delicato ma deciso pianto il rampone nel fianco del seracco, ficco le picche al di là della voragine e passo, iniziando a salire verticale verso l'alto.
E' l'inizio di un viaggio immenso, di una danza estenuante, di una scalata che dura come una vita intera.
Percorso il lungo couloir tra neve ottima, salti di misto marcio e piccole cascatelle di ghiaccio spaccoso, ci inoltriamo nella sezione più maledetta della parete. Arrampichiamo su roccia coperta da una spanna di neve pesante, dove ogni metro va guadagnato precariamente, grattando i ramponi alla disperata ricerca di un appoggio. Saliamo in diagonale, piazzando qualche rara protezione dal valore prevalentemente psicologico, fino a trovare un passaggio nella grande muraglia verticale che ci sovrasta.
Avanziamo con alcuni tiri di misto, sempre delicati, sperando di poter finalmente raggiungere l'ultima parte dello sperone, che la nostra relazione descrive come una ripida lama di neve di 300 metri.
Quando però con un ultimo tiro incerto esco da un camino di roccia marcia, bucando la cornice che fa da tappo al filo dello spigolo, inizio a temere che le rogne non siano ancora finite. Al posto di un'uniforme rampa nevosa, mi trovo infatti davanti una maledettissima processione di merli e contrafforti rocciosi, misti a neve per nulla sicura.
Non c'è niente da fare, è la montagna a condurre il ballo e tocca a noi adeguarci: d'altronde è questa l'essenza dell'alpinismo.
Con i nervi sempre più a fil di pelle avanziamo in conserva protetta. A destra la neve è dura, ma il pendio è verticale e non sempre è agevole passare, a sinistra la neve è invece marcia e insidiosa e si stacca in sibilanti slavine ogni volta che proviamo a piazzare un appoggio. In mezzo passiamo noi, superando uno dietro l'altro i salti rocciosi che ci fanno dannare. Ormai sono troppe ore che siamo dentro a questa infernale parete.
Raggiunta una selletta nevosa decretiamo che non è più il caso di continuare su questo terreno che ci sta rendendo troppo lenti. Così decidiamo di fare quello che ieri ci eravamo promessi di non fare: buttarci sullo scivolo nord est, pericoloso per le valanghe, ma teoricamente più rapido.
Con un delicato traverso ci portiamo così in piena parete, ma le speranze di una progressione veloce vanno ancora una volta a farsi benedire; mi trovo infatti a tracciare nella neve fradicia che arriva a mezza coscia. Sono esausto, sempre più frequentemente devo appoggiarmi alle picche per rifiatare. Ale mi incita, si propone anche di passare davanti lui, ma sono ormai troppo posseduto da questa parete per poter cedere anche solo un pizzico di questa massacrante sublimità.
Come se non bastasse le cose iniziano anche a complicarsi, perché più saliamo più ci troviamo ad intersecare colate di ghiaccio vivo e duro come pietra. Sembra un paradosso, io continuo a borbottare, a imprecare passando dall'affondare come fossi nelle sabbie mobili, a piantare viti da ghiaccio come fossimo su una cascata in pieno inverno. Sembra che ogni legge fisica qui non valga, qui vale solo la montagna e le nostre strane idee che ci hanno portato ad infilarci su di qua.
Più in alto, ormai allo stremo, decidiamo di piegare ancora una volta andando a riprendere il filo dello sperone. La vetta è una cinquantina di metri sopra di noi, ma sembra non arrivare mai. Noi affrontiamo un torrione dopo l'altro, con affanno, senza poterci permettere di perdere neppure per un istante la concentrazione. Continuiamo a ripetercelo: “attenzione, attenzione”.
Quando con un ultimo passo sbuco oltre l'ultimo salto di misto e vedo solamente una lama di neve compatta tra me e la fine della parete, non riesco a crederci e sento nel cuore un'emozione immensa. Chiamo Ale, grido, mentre lui è impegnato sull'ennesimo passaggio delicato, poi avanzo godendomi quegli ultimi passi come fossero la cosa più bella del mondo, ed in fine, finalmente, eccomi in cima!
E' strano, è come se improvvisamente mi accorgessi che c'è la luce, che la neve è bianca e il cielo è azzurro. Ale mi raggiunge, ci sediamo a mangiare qualcosina facendo fatica a trovare parole da dire, ma non serve. Qualche cordata ci passa vicino, stanno facendo la traversata delle creste e si complimentano con noi, guardando un po' increduli le nostre tracce che precipitano giù nell'abisso inghiottite dalla parete.
Iniziamo la discesa il cui primo tratto è in realtà una cavalcata in cresta che ci porta a toccare le tre cime del Palù. Poi giù, giù lungo gli ampi tornanti che aggirano i grandi crepacci. Quando giungiamo finalmente alla nostra tenda siamo dei cadaveri ambulanti: stanchi morti, bruciati dal sole, spossati, quasi fatichiamo ad articolare frasi di senso compiuto. Beviamo tutto quello che abbiamo lasciato al campo: acqua, birra, vino. Poi riguardiamo quella parete, ora che abbiamo recuperato almeno la forza che ci permette di poterlo fare, di poter constatare ancora una volta la bellezza immensa di quel mondo gigantesco.