Arrivo sudato marcio al rifugio e mi siedo sulla panchina di pietra. Le nubi grigie avvolgono le montagne: non si vedono ma so che sono là, si innalzano dritte e immense con le loro pareti di granito.
Ordino una birra e mi metto a sorseggiarla. Provo a rilassarmi respirando quest'ultimo sole, ma la preoccupazione c'è e continua a rimanere annidata nel mio animo. Ho addosso il peso di una settimana difficile e fastidiosa, ho addosso l'incognito inquietante di domani mattina: quell'enorme cattedrale ammirata infinite volte, quella roccia che come un incantesimo mi riempie la testa.
Avrei bisogno di tranquillità, di buttare fuori i cattivi pensieri. Ma sono qui per qualcos'altro, non per svuotarmi, ma per riempirmi, per portare dentro di me qualcosa che è lassù.
Come sarà domani? Percorro con la mente i diversi passaggi che ho letto mille volte sulle relazioni, li penso e provo a figurarmeli. Spero che il meteo sia davvero buono: “devo essere fuori dalla parete prima che salgano i nuvoloni”.
Le incognite sono mille, avrei bisogno di rilassarmi dopo la brutta settimana appena trascorsa; eppure sono qui. Sono qui come se me l'avesse imposto il destino.
Non riesco a pensare a come potrebbe essere dopo, dopo la scalata. Non riesco a immaginare come possa essere sbucare in cima, finalmente. La vetta la percepisco come qualcosa di indefinito, che potrebbe anche non esistere: per ora è solo un ideale a cui aspiro da anni. E ora sono qui, sono proprio qui sotto, come Ulisse in prossimità delle Colonne d'Ercole.
La notte dormo bene. La melma della settimana non può sopravvivere all'ombra delle stelle, in questa valle di severa bellezza.
Mi siedo a fare colazione sullo stesso tavolo dove ho cenato, ma le parole, le risate e i brindisi della sera prima sono scomparsi. Ora sono concentrato, non penso più alla via, alla relazione, alla montagna, ho come raggiunto l'equilibrio che cercavo. Mangio tranquillo, poi sistemo lo zaino e esco sulla veranda. Davanti a me si alza incredibilmente bello il Badile, lo conosco bene, sembriamo fatti uno per l'altro.
Allaccio gli scarponi e parto: scavalco il muretto della veranda e mi sento una nave che lascia il porto per il mare aperto.
Risalgo la morena senza pensieri, semplicemente puntando al torrione da dove parte la via. Lo raggiungo salendo a zig zag e lancio un'occhiata verso l'alto. I movimenti sono automatici: mi tengo salda la mia concentrazione, mentre infilo l'imbrago e allaccio il caschetto. Faccio scattare i pochi moschettoni, ognuno al suo posto, e attacco.
C'è una magia che è impossibile da spiegare. L'ho provata tante volte, eppure quando ci ripenso mi stupisce sempre. Si crea una sintonia commovente con la montagna, l'incognito che prima spaventa diventa famigliare e si fonde con la volontà. L'ho sentita sui pendii di misto del Monviso e nel canale di neve del Foppa, con le slavine che mi passavano sopra alla testa. L'ho sentita nell'assalto al Chapaeva, nel lontano Tien Shan, come nel cuore del Mengol. L'ho sentita sulle creste delle Orobie come nel ghiaccio del Brenta. E' una magia che ti prende nella tua totalità, in ogni movimento del corpo e nella dinamicità della tua anima, e ti getta nel cuore pulsante del mondo fondendoti con esso.
Come correndo verso casa sono arrivato all'obelisco della cima e mi sono seduto sulla roccia scaldata dal sole. Attorno a me la bellezza delle montagne, ma non è uno spettacolo; è semplicemente quello che c'è, come se tutta quella bellezza fosse normale. E io non sono lo spettatore, ma un figlio di quelle montagne a cui la Bellezza ha ancora una volta concesso un miracolo.