Siamo a fine maggio, sono passati solo due mesi da quando ho scattato
quelle foto. Ora le riguardo e sembrano di un’eternità fa.
E’ strano come il tempo a volte ci sfugga di mano, faccia strani
giochi. A pensare a quei due mesi i fatti che li hanno percorsi sono allacciati,
le cose scorrono una sull’altra con linearità. Ma a riguardare la scalata della nord del Mengol sembrano passati anni.
Eppure ogni scatto lo ricordo perfettamente e mi ridà come una
fulminata, risento su per la schiena la sensazione di allora. Non sono grandi
scatti, solo frettolosi frammenti di una giornata di inizio primavera.
Frammenti di una scalata solitaria, che come tutte le solitarie è ricca di
sensazioni intense, uniche.
Ricordo la partenza in macchina, col freddo della mattina. La musica a
tutto volume per pensare un po’ meno a quella percezione appiccicosa: “che
accidenti sto facendo?!”. Il giorno prima mi ero sentito con Ale e Mario,
entrambi mi avevano messo in guardia dalle scariche e dalle slavine: “Occhio
che non diventi un’altra via del dubbio!” “Se le condizioni non sono buone non
fare cazzate e torna indietro”.
Ricordo la soddisfazione di aver parcheggiato, con l’alba che
sbocciava e nessuno a chiedermi il pagamento. Poi i primi passi su per
l’asfalto e poi la neve. Faceva freddo, l’inverno era finito da meno di una
settimana, ma già la primavera aveva cosparso il bosco dei suoi profumi.
Avevo una fretta maledetta, avevo voglia di vedere la parete, di
scoprire come era messo il Mengol. Passo via il rifugio Bagozza e mi inoltro nella
conca dei Campelli. Gli abeti in ombra ancora mi coprono la visuale, la
strada è lastricata da neve bella dura. Poi ecco ergersi bellissimo il Cimon della
Bagozza e alla sua sinistra la mia montagna!
Non è stata la scalata del secolo, sicuramente no. Però è stata una
gran bella scalata. L’avvicinamento è stato su neve buona, come la prima parte
del canale. Poi le condizioni non erano delle migliori: il primo salto di
roccia vetrato, la parte superiore del canale con neve non portante. Ricordo
benissimo quanto ho dannato per attaccare le rocce della parete, là dove
termina in canale; con una sorta di crepaccia terminale che si formava tra le
roccette strapiombanti e la neve molle.
E in ultimo lo sperone finale, con le sottili lame di neve e la roccia
piena della spolverata di fine inverno. Però che esaltazione, con quella
esposizione sul vuoto, solo, con il silenzio del vento a farmi compagnia.
Cercare il passaggio su per lo sperone verticale, scavando nella neve per
liberare un appiglio, grattando col piede per incastrare un rampone. E poi la
cima…
Una delle foto che più mi ricordano la bellezza di quella giornata è
però una delle ultime. Una brutta foto sbiadita, che i miei studenti
chiamerebbero selfie. Sono io sdraiato sotto ad un larice dopo la scalata.
C’era giusto un cerchio di prato fiorito sotto l’albero, tutto intorno la
neve. Mi sono messo lì, in maniche corte, tra l’ombra e il sole al caldo, ormai
fuori dal cono di freddo dei versanti nord. Ho mangiato lì e senza fronzoli mi
sono reso conto di una cosa semplicissima: di essere felice.